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CAPITANI CORAGGIOSI. ALESSIO CREMONESE: «MANIFATTURA VALCISMON E’ UN’AZIENDA FAMIGLIA CHE HA FATTO LA STORIA E ORA...». GALLERY
di Pier Augusto Stagi | 02/08/2024 | 08:15

Nasce sotto una buona stella Alessio Cremonese, la stella che è poi quella dei grandi corridori ciclisti. Nasce a Fel­tre il 14 novembre del 1974, il giorno dei campioni, di alcuni veri fuoriclasse del pedale vi­sto che in questo giorno sono venuti al mondo campioni di prima grandezza capaci di scrivere pagine di storia del ciclismo memorabili, come Bernard Hinault e Vittorio Adorni, Davide Boi­fava, Koichi Nakano e Vincenzo Ni­bali.

Quarto di quattro figli, Alessio è da sempre per mamma “Rina” (Caterina, ndr) e papà Giordano “il ceo” che nella mitologia greca era il nome di un gigante, mentre nel dialetto veneto è “il piccolo”, il figlio ultimo, il più piccino e il caso vuole che oggi, a 50 anni da compiere, Alessio Cremonese sia per i suoi genitori sempre “il ceo”, il piccolo di famiglia visto che Dario è del ’66, Gioia del ’69 e Alberto del ’72. Ma per Manifattura Valcismon Alessio è davvero il Ceo, l’amministratore delegato, carica che ha assunto nel febbraio del 2019.

Questo mese è lui il nostro “Capitano Coraggioso”, uno dei protagonisti as­so­luti del mondo industriale italiano, a capo di un’azienda famiglia che cinque anni fa si è rinforzata facendo entrare nel capitale di Mani­fat­tura Valcismon il fondo Equinox attraverso l’acquisizione di una quota di mi­no­ranza del 40%, senza però stravolgere gli equilibri di una realtà che aveva solo bisogno di qualche propulsore in più per af­frontare con maggiore efficacia i mercati del mondo.

«Il sessanta per cento è rimasto nelle nostre mani - ci racconta Alessio -, che poi sono il 53 della nostra famiglia (i quattro fratelli, ndr) e il 7% di Steven Smith, con noi da oltre venticinque an­ni. In pratica è un fratello aggiunto: è proprio il caso di dirlo, fa parte della famiglia».

Siamo qui per raccontare la storia del “ceo”, del piccolo di casa, ma an­che di tutta la sua famiglia, partendo da un nonno e una nonna caparbi e volitivi per passare a un papà che chiuse la sua laurea in medicina in un cassetto per aprire un mondo nell’abbigliamento sportivo. E quindi quattro figli che questo patrimonio non l’hanno disperso o dissipato, ma sviluppato con cura passione e rispetto, dando un fu­turo a marchi di assoluto prestigio co­me Sportful, Castelli, Karpos e Zoot, l’ultimo nato, o meglio, l’ultimo acquisito visto che il marchio hawaiano è da anni un punto di riferimento nel mon­do del triathlon.

Quando nasce la Manifattura Valcismon?
«Nonno Olindo e nonna Irma per qual­che anno hanno mandato avanti una locanda a Casella d’Asola, ma un bel giorno decisero di cambiare radicalmente la propria attività aprendo una piccola filanda per la cardatura della lana. Per l’occasione si sono trasferiti a Lamon, il paese dei fagioli, ma anche delle pecore: per questo lo hanno scelto. Insomma, tutto iniziò come piccola filanda per la lana, ai piedi delle Do­lomiti Bellunesi. Poi, dalla lana hanno cominciato a fare tessuti, quindi la nonna ha iniziato a comprare delle macchine per cucire e a fare dell’abbigliamento intimo per poi spostarsi nuo­vamente verso il primo centro abitato a valle del fiume Cismon. Da qui hanno sempre proseguito a produrre biancheria intima per conto terzi, ma anche dolcevita e polo, fin quando non entra in scena papà Giordano. Essendo un grande sportivo, visto che praticava con buoni risultati l’atletica leggera (100 metri, ndr), ad un certo punto papà si è avvicinato al mondo dello sci di fondo e si è iscritto nel 1973 alla Marcialonga di Fiemme e Fassa. Una granfondo di 70 chilometri che si sno­da tra queste due valli: parte da Moe­na, va su a Canazei e scende fino a Ca­va­lese. Non avendo l’abbigliamento ido­neo, si fece una tuta innovativa tutta sua fatta di tessuti elasticizzati e di color arancione, un capo che garantiva una li­bertà di movimento inedita e piacque talmente tanto che con il passaparola cominciò ad essere richiesta a più non posso. Fu subito successo, ma ad un certo punto nacque la necessità di mettere la firma a quei prodotti. Ci sono da creare un marchio e un nome. As­sieme ad un suo amico, sfogliando un dizionario di inglese, l’occhio cadde su un termine: Sportful, con una sola “l” però: non “tutto sport”, ma “sportivamente”. Era il 1973 e nasce il primo marchio della Manifattura Valcismon, fondata invece nel lontano 1946. Oggi è una realtà presente in 75 Paesi nel mondo con 6 filiali, oltre 253 dipendenti e una crescita di fatturato a doppia cifra (114 milioni di euro, ndr). Chi ama il ciclismo e l’outdoor - escursionismo, alpinismo, arrampicata, scialpinismo e sci di fondo - sa quanto iconici siano i nostri marchi».

Il mondo del ciclismo e non solo vi riconoscono una storia famigliare e industriale di prim’ordine. Un’ artigianalità che parte dai nonni Olindo e Irma e da una generazione all’altra arriva fino a voi.
«Manifattura significa fatto con le ma­ni: la manualità nel nostro settore incide tantissimo. Ogni capo ha bisogno di tempo e cura dei particolari: credo che questo traspaia e venga percepito nei mondi in cui noi operiamo. Manifat­tu­ra significa anche attenzione per la persona, per i nostri clienti ma anche per chi per noi lavora: se loro stanno bene e lavorano in un ambiente salubre e sereno, l’azienda gode di buona salute».

Come arrivate al ciclismo?
«La forte stagionalità, di fatto, fa pensare a papà Giordano che è necessario trovare anche qualcosa che possa dare impiego per tutto l’anno, dalla primavera all’autunno. Così decide di aggredire altri mercati e entra nel mondo del ciclismo: era il 1982. Partì con il colpo di pedale giusto fin da subito, con la sponsorizzazione della Alfa Lum di Primo Franchini, quella dei primi corridori sovietici e la prima vittoria im­portante - il titolo mondiale - di Mau­ri­zio Fondriest. Poi passammo a sponsorizzare la Mapei degli indimenticabili Giorgio Squinzi e Adriana Spazzoli: la squadra numero uno al mondo, una pa­rabola sportiva e umana che ha segnato non solo la storia del ciclismo, ma quella di tutta la nostra famiglia».

Poi arriva la Castelli.
«Un marchio bellissimo, che produce capi di assoluta visione. Lo acquistiamo da Antonio Colombo nel 2003. E fin da subito abbiamo avuto la grande intuizione di andare a riprendere i di­segni che a metà degli Anni Ottanta fa­ceva quel genio di Maurizio Castelli, il fondatore di questo marchio iconico, mancato troppo presto. Pensi che in quegli anni aveva capito che l’aerodinamica dell’uomo era più importante di quella della bicicletta. Aveva disegnato e pensato primo fra tutti le maglie aerodinamiche. Noi le testammo con la Saunier Duval di Mauro Gianetti: fu un successo pazzesco, che cambiò il modo di intendere le maglie da ciclismo che divennero davvero capi tecnici, nel vero senso della parola».

La gabba è ormai un brand universalmente riconosciuto e agognato.
«Fu un’idea di Gabriel Rasch, corridore che ci richiese espressamente una mantellina antipioggia a manica corta, che se ci si pensa è un vero controsenso. Quando ce la chiese pensammo: que­sto tutto giusto non è. Ha avuto ra­gione lui, ebbe una intuizione fantastica, che fa­ceva risparmiare un sac­co di watt in corsa. Era il 2010, e la gabba fece il suo esordio ufficiale in una corsa del nord, in una giornata da tregenda, era la Het Nieuwsblad, la vecchia Omloop Het Volk. Fu un successo pazzesco, che cambiò di fatto ra­dicalmente il modo di pensare agli indumenti invernali».

Castelli firma anche la maglia rosa: il modo migliore per portare in Giro nel mondo la ricerca applicata al design.
«Da sempre la nostra è un’azienda che guarda al futuro alzando sempre di più l’asticella dei prodotti, affidandosi alle nuove tecnologie. Non è un caso che si collabori da anni con il Poli­tec­ni­co di Milano e con l’Università di Trond­heim (Norwegian Uni­ver­sity of Science and Technology ndr) per studiare l’aerodinamica dei nostri capi da ciclismo o per sviluppare tessuti assieme ai nostri fornitori per renderli ancora più performanti. Ab­biamo inserito le nanotecnologie e ab­biamo capito come si comportano de­terminati materiali dal punto di vista dell’aerodinamica. Pensate che l’evoluzione è solo agli inizi».

Facciamo un passo indietro: come è stata la sua infanzia?
«Bellissima e non poteva essere altrimenti. Sono “il ceo”, il piccolo, il cocco di casa e dell’azienda. La nostra abitazione era all’interno della fabbrica e il cortile era in comune: giocavo di fatto tra casa mia e la fabbrica, tra mamma e il pa­pà, tra i miei fratelli e i dipendenti. Io fin da piccino sono la mascotte di Valcismon. Mam­ma Rina è la mia fata, papà Gior­da­no il mio cavaliere senza paura. I miei fratelli, compagni di giochi. Elementari e medie a Fonzaso, le superiori a Feltre: diploma da geometra. Ho fatto un paio di anni di economia e commercio a Ve­rona, ma dopo ho scelto l’azienda. Ho fatto un po’ di tutto, soprattutto nella parte produttiva. Ho in pratica aperto e avviato lo stabilimento di proprietà in Ungheria (150 dipendenti, ndr). Lì mi sono fatto le ossa, lì mi si sono aperte la mente e il cuore: quegli anni di progettualità sono stati bellissimi. Mi sono rimasti dentro e mi hanno segnato in maniera indelebile».

Mai fatto il corridore?
«Assolutamente no».

Però appassionato?
«Moltissimo. Sono stato un grandissimo tifoso di Beppe Saronni. Qualche anno dopo ho avuto anche la fortuna e il piacere di conoscerlo e lavorare per lui quando sponsorizzammo la Lam­pre. Un giorno mi regalò anche un bellissimo casco che ancora oggi conservo come un oggetto prezioso. Ogni tanto me lo guardo e penso: me l’ha regalato Saronni».

Altri sport?
«Calcio: sono juventino. Ho anche tre abbonamenti allo Juventus Sta­dium, di­ciamo che sono abbastanza “gobbo”».

Ama leggere?
«Mi piacciono i classici e quello che amo di più è “I Promessi Sposi”».

Sport che ama praticare.
«Lo sci di fondo. Mi piace praticarlo da solo: mi aiuta a mettere in fila i pensieri. Mi piace anche il senso della fatica, quello buono, quello sano».

Un film del cuore.
«Il mandolino del capitano Corelli».

L’attore?
«Nicolas Cage».

Attrice?
«Non ne ho una in particolare».

Colore?
«Giallo».

Cantante?
«Vasco Rossi, nessuno co­me lui. Ha un uso del­la parola eccezionale: un poe­ta ermetico fatto in musica».

Lo conosce?
«L’ho incontrato, ma da fan».

Una canzone?
«“Gli angeli”, sempre di Vasco. Quello che si prova, non si può spiegare qui… ce l’ha presente?».

C’è una cosa che la manda in bestia?
«Quando mi rispondono: ho fatto così perché ho sempre fatto così. Non amo chi vuole restare nella comfort zone e non fa nulla per migliorare le cose».

Sposato?
«Sì, con Katia e padre di Mattia (22 anni), Martina (19) e Margherita (14). Sono la mia squadra, il mio approdo, il mio paradiso».

Ama stare a tavola?
«Molto».

Piatto?
«Cacio e pepe».

Vino?
«Amarone».

Uno dei ricordi più belli che porta nel cuore.
«Tolto il mio matrimonio con Katia e la nascita dei miei ragazzi, il giorno in cui papà Giordano dichiarò in pubblico in una conferenza che si considerava un uomo fortunato perché la vita gli aveva riservato dei grandi genitori e dei figli fantastici, all’altezza della situazione, che lo rendevano or­goglioso. Quel­lo è stato l’attestato più bello per noi tutti. Per me la laurea che non ho, ma quel giorno papà me ne ha data una ancor più preziosa e quella vale più di ogni altra cosa».

Cosa le riempie il cuore?
«L’affiatamento e la stima che abbiamo noi quattro fratelli. Ognuno ha sempre avuto il proprio campo di azione e di fatto ci vogliamo veramente bene. Que­sto è il valore di una famiglia. Questi sono i valori che noi vogliamo tramettere anche attraverso Manifat­tura Val­cismon».

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