Era così gregario che, quando gli comandarono di dedicarsi a un compagno in grave ritardo, non rallentò e non si fermò ad aspettarlo, ma girò la bici e tornò indietro per cercarlo, recuperarlo e tirarlo fino all’arrivo. Quel giorno il suo tappone dolomitico si rivelò dieci chilometri più lungo che per tutti gli altri del Giro d’Italia.
Fu una stella, Antonio Albonetti detto Paolo, Paolo come suo padre, per quella mania, tutta romagnola – lui di Faenza –, di dare un nome al battesimo e poi cambiarlo strada facendo. Fu una stella del ciclismo, ma illuminò il cielo delle strade, il firmamento del gruppo, la galassia delle corse per troppo poco tempo. Però il ciclismo ha buona memoria, e basta un incontro, alla Bici al chiodo 2017, per ricordare e raccontare.
Antonio detto Paolo, figlio di un lucidatore capo in un mobilificio e di una decoratrice in botteghe d’arte e perfino nella residenza di famiglia di Benito Mussolini. Antonio detto Paolo, che ricevette la prima bici a quattro anni, e un anno dopo il padre cambiò il manubrio da quello di serie a uno da corsa, e che fu folgorato sulla strada dell’Olmatello, un circuito per professionisti, primo Aldo Moser, e che poi acquistò la bici da corsa nel negozio di Aldo Ronconi, una Bianchi modello Parigi-Roubaix, e che alla prima gara, il Gran premio Scarlatti a Forlì, arrivò terzo.
Quella volta che, da allievo, gli altri corridori lo imploravano di andare via, altrimenti avrebbero dovuto correre per il secondo posto. Quella volta che, da allievo, i dirigenti della sua squadra lo pregarono di rallentare per far vincere anche gli altri.
Quella volta che, ancora da allievo, siccome non esisteva il photofinish, gli organizzatori del Campionato italiano si affidarono a una foto scattata obliqua, e gli rubarono una vittoria sacrosanta. Quella volta che, al Cantagiro del 1963, prestò la sua bici ad Adriano Celentano per una sfida tra cantanti, e poi gli disse, scherzando ma non troppo, che la sua bici voleva vincere, e Celentano vinse.
Quella volta che, fra una corsa e l’altra, superò l’esame per diventare vice assuntore, cioè capostazione di piccole stazioni. E quel Tour de l’Avenir, nel 1964, in cui fece da gregario a Felice Gimondi, poi vincitore, francobollando e anestetizzando il suo diretto avversario, lo spagnolo Diaz.
Tre anni e mezzo da professionista: l’esordio a fine 1966 con la Salamini, il 1967 con la Salamini come gregario di Vittorio Adorni, il 1968 con la Salvarani al servizio di Adorni e Gimondi, e anche di Rudi Altig e Dino Zandegù, il 1969 con la Germanvox a disposizione di Vito Taccone e Ole Ritter. Poi il cuore fece il matto, Antonio detto Paolo – un po’ come Franco Bitossi - era costretto a fermarsi anche cinque minuti prima di rimettersi in sella e inseguire il gruppo, finché i medici gli dissero che era troppo rischioso. E allora si riciclò massaggiatore. Anche per Eddy Merckx.
“Paolo, il buono” – così si intitola la storia di Albonetti scritta da Elio Pezzi (Homeless Book, 80 pagine, 12 euro) -, Paolo il modesto, Paolo il gregario. L’unico che abbia mai osato girare la bici e tornare indietro per cercare e recuperare un compagno, e poi tirarlo fino all’arrivo. Entro il tempo massimo.
Marco Pastonesi