E’ un sabato da maglietta a maniche corte e abbronzatura da muratore sudato, da caffè all’aperto e baguette sotto il braccio, da aria di vacanza e profumo di marea, da estate in corso e di corsa, da mese di luglio.
E’ un sabato da radio sintonizzata e tv accesa, da computer in navigazione e biblioteca in osservazione, da edicola corteggiata e libreria sfiorata, da trenta righe e via andare.
E’ un sabato lento, lungo, pigro, annunciato, dichiarato, promesso, sognato, aspettato, pedalato anche in surplace.
E’ un sabato da canzoni di Charles Aznavour e poesie di Jacques Prévert, da cappotti di Jean Gabin e pipa di Maigret, da occhi di Juliette Binoche e labbra di Fanny Ardant, da naso di Roger Pingeon e berretto di Bernard Thévenet.
E’ un sabato da biciclette che passeggiano e vanno a spasso, che stanno appese e sospese, che ti guardano e ti sfrecciano, che procedono a piedi e di corsa, che veleggiano, che velociferano, che celerifano, che semplificano, che lubrificano.
E’ un sabato da Maurice Garin e Petit Bréton, da Bartalì e Coppì, da Jacques Anquetil e Raymond Poulidor, da André Darrigade e Jean Graczyk, da Tom Simpson e Eddy Merckx, da Gimondì e Nibalì.
E’ un sabato da nomi e accenti francesi.
E’ un sabato da corsa, da strada, da marciapiede, da volata, da folla, e allora è un sabato da attesa, da fantasia e allegria, da memoria.
E’ un sabato che unisce destini rotondi, collega pensieri leggeri, intuisce legami alpini e pirenaici, percorre sentieri affettuosi anche sui Campi Elisi.
E’ un sabato da villaggio, è il sabato del villaggio, in qualsiasi villaggio, anche a duemila chilometri di lontananza.
Perché questo è il sabato, il primo sabato, del Tour de France.
Marco Pastonesi