Il Giro Rosa è anche un uomo, un uomo solo al comando, ma circondato, sostenuto e soccorso da tanti amici, e il suo nome è Giuseppe Rivolta. Non ha la maglia bianca e azzurra, come quella della Bianchi di Coppi, ma amen, va bene anche in giacca e cravatta, in maglione e polo, andrebbe bene anche così com’è, un sentimentale che deve coabitare con la ragione, un romantico che deve far quadrare i conti, un idealista che deve disciplinarsi con l’organizzazione.
Rivolta – solo Pier Augusto Stagi, forte di una collaudata amicizia, osa chiamarlo Beppe – è nato il 12 giugno 1950, giorno in cui Annibale Brasola regolava Guido De Santi e Renzo Soldani nella Campobasso-Napoli, penultima tappa del Giro d’Italia, il primo conquistato da un corridore straniero (ma: “Non ci sono stranieri nel ciclismo”, tuonava Gianni Brera, direttore della “Gazzetta dello Sport”), lo svizzero Hugo Koblet. A Sovico, in Brianza, oggi – come recita un adesivo sul cartello stradale – comune deberlusconizzato, ieri – e ancora - strada provinciale numero 6, da Monza a Carate, dove il papà Rivolta portò il figlio Giuseppe sulla canna della bicicletta a veder passare il Trofeo Baracchi. “Vidi Fausto Coppi – ricorda Giuseppe – e fu una folgorazione”.
Elementari e medie, poi le serali, perché la mamma voleva che studiasse, ma il papà pretendeva che lavorasse, così Giuseppe accontentò tutti e due, di giorno lavorava nell’azienda paterna, impianti idraulici ed elettrici, e di sera studiava, fino a diplomarsi perito elettrotecnico. Da lì in poi, soltanto lavoro. E quando il padre morì, Giuseppe, a 30 anni, si scoprì disperato nel tentativo di occuparsi anche di gestione e organizzazione. Senza immaginare che proprio gestione e organizzazione sarebbero diventate, con il tempo, e con il ciclismo, un piacere, una soddisfazione, forse un’antica nascosta vocazione.
La sua prima bici era normale, eppure con quelle si ingaggiavano sfide e gare con gli amici. “E vincevo”. La bici rimase una passione repressa, un amore soffocato, un connubio nascosto finché Luisa, sei mesi dopo il matrimonio, per Natale, gli regalò una Motta, nel senso di Michele Motta, un grande di Lissone, non Gianni, l’eroe di Cassano d’Adda. Era il 1975. “E fu la sua rovina”, confida Giuseppe alludendo a Luisa, “perché a quel punto la passione esplose”. Tant’è vero che Giuseppe fece tutto e di tutto: da cicloamatore a socio, e sempre più su, del neonato Velo club Sovico, poi direttore di corsa, dirigente nazionale, direttore di organizzazione di gare come la Coppa Agostoni e il Trofeo Bernocchi, ma anche staffettista in moto. Sua la Settimana Tricolore in Brianza nel 2001. E a lui, il primo maggio – un giorno tradizionalmente santificato per il riposo - del 2002, telefonò l’allora presidente federale Giancarlo Ceruti, per affidargli un bel lavoro: il Giro d’Italia donne, 10 giorni in luglio, pronti-via.
Da allora, Rivolta ha preso in mano, fra le braccia e soprattutto nel cuore, il Giro Rosa. Dice che “lo vivo anno per anno”, sostiene che “ha meno di quello che merita”, anche se aggiunge che “è cresciuto e continua a crescere”, poi confessa che “a sentire Colnago che lo sponsorizza per tre anni, e a sentire la Rai che lo manda in onda insieme con il Tour de France, mi commuovo”, e confida che “il mio desiderio è aggiungere, ogni anno, qualcosa di speciale”. Nel 2016 sarà il Mortirolo: “Già fatto, però da Monno, invece stavolta da Mazzo”. Quando scatta la tappa e lui sale – Giorgio Albani come punto di riferimento: tranquillità ed eleganza - in ammiraglia, Rivolta dice che “il più è fatto, ma il bello deve ancora venire, poi l’imprevisto c’è sempre, la mia filosofia è prevenire più che assicurare”.
Sì: il Giro Rosa è anche un uomo. E il suo nome è Giuseppe Rivolta.
Marco Pastonesi