Ha occhi azzurri e animo sereno. Ha mani operaie e fisico alpino. Ha novant’anni e accento fiorentino. E ha anche un gran voglia di dire che non ha niente da dire: “Mi creda, è solo tempo perso”. No, non è tempo perso: è tempo andato. E solo lui, se non lo resuscita e se non lo tramanda, può perderlo.
Così Bruno Giannelli, libero nel 1946, dilettante dal 1947 al 1949, professionista - nella Bartali - dal 1950 al 1952, stavolta fa un’eccezione e, via Datini 32, secondo piano, tavolo della cucina, tazzina di caffè, racconta. “Babbo Alfredo, tipografo, mamma Luisa e sorella Bruna, quattro anni più giovane di me. Rione Gavinana. E questa casa, tirata su dal mio babbo, il sabato e la domenica”. “Quinta elementare, poi apprendista idraulico a Rifredi, 10 lire la settimana, avevo 14 anni”. “La prima bici, regalo del mio babbo, a sei anni: era piccinina, sa, quegli aggeggi di una volta, tutta nera”. “Invece la prima bici da corsa era vecchia, trovata in un deposito di rigattieri, noi non si avevano i quattrini per sceglierne una in vetrina. In centro c’erano un negozio della Bianchi e un altro dei Bozzi della Legnano, la mia la presi in una zona dove le bici le rubavano, il Borgo Allegri. Manubrio giù, né marca né nulla, ma era il 1945, e dopo la guerra non c’erano neanche le strade”.
Giannelli salta dalla prima corsa (“Nel 1946, ad Antella, tutti i migliori, e io con la mia bici da rigattiere”) alle prime sette corse (“E sette ritiri, tant’è che avevo deciso di smettere di correre e tornare a lavorare”), da Giovanni Cariulo (“Da dilettante le vinceva tutte, noi si diceva che fosse un succhiaruote”) ad Alfredo Martini (“Ci teneva il morale alto, ci voleva bene, ci ascoltava”), da Fausto Coppi e Gino Bartali (“Noi si diceva: Coppi è un cavallo di corsa, Bartali un cavallo da tiro”) a Fiorenzo Magni (“Intelligente, il più intelligente, fin troppo, furbo”), da Ferdy Kubler (“Il più matto: s’incitava, ad alta voce”) ad Aldo Bini (“Un giorno ci si affiancò un ragazzo in bici, la sua bici alle ruote aveva i galletti, pericolosi perché si potevano agganciare alle altre ruote come rostri, allora Bini gli disse ‘va’ via, tu ci hai i galletti, e i galletti son buoni in pentola’”).
Un’ora a cuore aperto: “Gregario, era una fortuna. Perché si era in tanti, e non tutti trovavano il posto, e poi si era acclamati, accolti negli alberghi, colazione e cena, e la sera un bagno con acqua calda e sale, noi ci si credeva, se avevi un dolore ti passava”. “La bici, per me, è un gioiello. Da ragazzo era una soddisfazione, da corridore un lavoro, da vecchio una compagna”. “Venti-venticinque chilometri tutti i giorni, e finché posso, ci vado”. “Mi fanno paura solo i motorini, mi passano accanto come frecce”.
Ma scattata l’ora, Giannelli torna della sua idea: “E’ solo tempo perso, non ne ricaverà nulla, e si ricordi, uscito di qui, di buttare via il mio numero di telefono”.
Marco Pastonesi