“Cosa sai fare?”, gli chiesero, senza tanti preamboli. “Niente”, rispose con sincerità. Fu la sua fortuna.
Il primo giorno, più di scuola che di lavoro – Milano, via Fantoli -, il 28 febbraio 1958. L’ultimo – Treviglio - il 7 settembre 2015. Giacomo Mauri è rimasto alla Bianchi 57 anni e mezzo, abitandola da Coppi a Nibali attraverso Gimondi e Argentin, Vigna e Venturelli, Pantani e Riccò, Kerschbaumer e Teocchi, ma anche Stoner e Agnelli. Garzone, meccanico, responsabile della produzione del settore corse, specialista della misurazione.
Non aveva neanche 17 anni quando era arrivato con il treno e il tram, e si era stupito di quella folla che si avviava al suo stesso indirizzo: tremila fra operai e impiegati, più che al lavoro sembrava di andare allo stadio o in una manifestazione. Quel ragazzo di Ripalta Cremasca non avrà saputo fare nulla, ma aveva una passione formidabile per tutto quello che ruotava: bici, moto, macchine. Ancora non lo sapeva, ma aveva anche occhi e mani, e qualcosa che andava oltre la vista e la manualità: intuito, vocazione, ispirazione, cose così. Ogni due o tre giorni lo cambiavano di reparto: dalla carpenteria alla verniciatura, dai telai ai collaudi, quando gli mancava l’aria significava che aveva già osservato e imparato abbastanza, e aveva voglia, anzi, bisogno, quasi urgenza di approfondire, esplorare, provare, scoprire.
Più che maestri, i suoi capi forse erano tiranni: non insegnavano, però si lasciavano guardare mentre lavoravano. Il primo, Pinella De Grandi, “Pinza d’oro”, il meccanico di Coppi. Poi Luigi Gilardi, telaista del Campionissimo. Fino agli ultimi tecnici e tecnologici, giovani, computerizzati, stessa maglia, identica passione, altra grammatica, la giusta complementarietà, la dovuta integrazione. Lui, Mauri, inossidabile al tempo e alle mode, curioso, sperimentale, pratico, di un umanesimo meccanico, che non è un paradosso, ma è invece la perfezione.
Papà contadino, poi giardiniere, mamma casalinga, lui quarto di sei figli, tre fratelli e tre sorelle, quinta elementare (la materia più amata: matematica; la meno, storia), poi garzone e apprendista. La prima bici della sua vita “fu una Bianchi, quella di mio padre: la distrussi cercando di piegare il manubrio da viaggio per dargli la forma di quello da corsa”. Invece la sua prima bici della vita “fu un’altra Bianchi, ma sempre da viaggio”. Era destino: il viaggio della vita. “L’università fu accelerata, e itinerante, al Giro d’Italia del 1965 e a quello del 1966, con Baffi, Venturelli, Zandegù, Armani e Mealli. Problemi e soluzioni, a ciclo continuo, a ritmo serrato, giorno e notte. Fu lui il primo a individuare “l’angolo di spinta”. E il suo misuratore, costantemente modificato, elaborato, perfezionato, per stabilire la posizione più adatta.
Mauri sostiene di avere lavorato, una vita intera, per l’equilibrio e sulla misura: “Non esiste programma. Ogni bici è una persona, ogni persona è una bici. Non contano solo centimetri e watt, ma anche età ed esperienze, obiettivi e progetti, pensieri e sentimenti. La cosa più difficile? Convincere un corridore a cambiare la posizione in sella. E poi convincerlo a darsi il tempo per adeguare i muscoli al cambiamento”. Il più esigente? “Chioccioli. Sentiva il bisogno di allungare o stringere”. Il più sanguigno? “Cipollini. Quando un meccanico gli cambiò la sella, vecchia, senza avvertirlo, diventò un leone”. Il più elegante? “Bugno”. E lui, Mauri? “Quaranta-cinquanta chilometri, un giorno sì e un giorno no. Ci vuole misura, ci vuole equilibrio”.
Lunedì scorso, tra amministratori e dirigenti, impiegati e operai, Gimondi e Vigna, Ghirotto e Gualdi, discorsi, brindisi e un regalo: una Infinito. Dopo 57 anni – un record - a cercare il giusto equilibrio e la misura perfetta, mai nome sarebbe stato più adatto.
Marco Pastonesi