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L'ORA DEL PASTO. LE STRATEGIE DI MICHELETTO
di Marco Pastonesi | 25/01/2019 | 07:27

Giro di Romagna del 1911. Si correva per il secondo posto. Non perché ci fosse un Coppi o un Merckx, cioè un Campionissimo o un Cannibale impossibili da precedere, ma perché il premio per il secondo (un maiale) era più ambito di quello per il primo (una medaglia d’oro). Giovanni Micheletto escogitò una strategia perfetta: nel finale si portò in testa alla corsa, poi rallentò, come colto da una crisi di fame o da una spossatezza fisica, e venne superato da un altro corridore, poi amministrò lo svantaggio dal primo e il vantaggio sul terzo. Ma proprio nella dirittura d’arrivo, il primo scivolò, cadde a terra e non si rialzò, e lui, a malincuore, vinse.

Avrebbe compiuto 130 anni, il 23 gennaio, Giovanni Micheletto. Era uno dei pionieri del ciclismo italiano, coraggioso e avventuroso, riservato a uomini di una resistenza mitologica. Friulano di Sacile, dove nacque nel 1889 e dove morì nel 1958, era soprannominato pomposamente “il Conte di Sacile” più per i suoi successi agonistici che non per la posizione economica, e chiamato più familiarmente e affettuosamente “Nane”. Giacinto Bevilacqua gli ha dedicato un volume biografico (“Giovanni Micheletto il Conte di Sacile”), la prima edizione nel 2012, la seconda nel 2018 (Alba, 140 pagine, 10 euro).

Papà rivenditore di vini, mamma oste e cuoca, Giovanni frequentò elementari e avviamento professionale, e sembrava destinato a sostituire i genitori nelle attività commerciali. Lo fregò la bici. Non la sua, ma quella di Achille, il fratello maggiore. Perché Achille correva e Nane lo seguiva solo per fargli da gregario. Peccato che andasse più forte. Accadde proprio nella sua prima corsa: a Conegliano, nel 1905, primo Giovanni, secondo Achille. E così diventò lui il Micheletto corridore. Nel 1906 conquistò il Gran premio Peugeot a Milano, e questa vittoria gli fruttò il viaggio a Parigi per una gara internazionale a spese della Federazione.

Il ciclismo di Micheletto è quello del Diavolo Rosso (Giovanni Gerbi) e di Petit Breton (Lucien Georges Mazan), di “Manina” (Giovanni Cuniolo) e del “Baslot” (Giovanni Rossignoli), di “Luisòn” (Luigi Ganna) e dell’”Avocatt” (Eberardo Pavesi). E’ il ciclismo del primo Giro d’Italia (corso con la maglia della Peugeot, ma si ritirò nella quarta tappa) e del quarto Giro di Lombardia (a metà percorso era ancora fra i primi, poi crollò e abbandonò). La prima vittoria tra i professionisti nella seconda delle due tappe del Giro del Veneto, nel 1909: la Udine-Vicenza di 302 chilometri, in 11 ore, 24 minuti e 25 secondi, alla media di quasi 26 chilometri e mezzo. Il ciclismo era una lenta agonia.

Il capolavoro del Nane fu firmato al Giro di Lombardia del 1910: si correva il 6 novembre, nel fango. La selezione naturale, la fuga di Octave Lapize (che aveva appena vinto il Tour de France) e poi la sua crisi, il duello fra Ganna e Micheletto, Ganna che lanciò la volata, Micheletto che lo freddò sul traguardo di Sesto San Giovanni. Il Conte di Sacile arricchì la sua storia a pedali, fra l’altro, con due vittorie di tappa e quella finale (l’unica volta in cui fu calcolata per le squadre, lui nell’Atala-Dunlop) nel Giro d’Italia del 1912, e una vittoria di tappa al Tour de France del 1913.

Poi la Grande guerra, la disfatta di Caporetto, anche lui fra i soldati che raggiunsero il Piave, il ritorno alla vita, addio bicicletta, ma c’era il commercio, e Giovanni si aprì ai liquori, da una cantina a una distilleria, con l’anice, la crema marsala, la china, il millefiori, la prugna e il vov. La Seconda guerra mondiale rivelò Micheletto antifascista e partigiano. E alla ricostruzione del Paese partecipò come presidente dell’ospedale di Sacile.

Silenzioso e generoso, curioso e intuitivo, il Conte di Sacile stupiva per le sue stranezze: amava i datteri, chiamava “prosciutto di pesce” il salmone affumicato, a 60 anni tornò alle corse, non a due ma a quattro ruote, primeggiò con una Lancia Ardea nella categoria dei gentlemen, ma non resisteva al richiamo del ciclismo, alla radio, sulla strada, sui giornali, negli alberghi delle squadre. Un giorno Tano Belloni, l’Eterno Secondo, lo santificò: “Se avessi avuto la sua potenza, altro che Binda, altro che Girardengo, non mi avrebbe battuto nessuno”.


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