Il 31 dicembre chiuderà per sempre. Cicli e motocicli. Un’officina senza titolo, senza dedica, senza omaggio, senza nome e cognome. Tanto, quelli, qui, li conoscono tutti a memoria, a passaparola, a naso e a occhio: Adriano Azzini.
Il 31 dicembre Adriano chiuderà per sempre. Un tre per dieci, nel senso di metri quadrati, con lavandino e gabinetto, in via Monte Bianco, Milano, zona Fiera, quella vecchia, quella campionaria, quella che allora era ville, palazzine, giardinetti e negozi, quella che adesso è grattacieli di archistar, traghetti spacciati per condomini, parcheggi sotterranei e centri commerciali.
Fra ottobre e novembre Adriano ha svuotato l’officina. Moto e bici, riparate, restituite, non più accettate. Il resto – un museo metalmeccanico fra chiavi e tenaglie, martelli e pinze, punteruoli e lime, e infiniti pezzi di ricambio novecenteschi – l’ha venduto, destinato, regalato. Anche il bancone. Via anche ritagli, calendari, manifesti, poster, fotografie. E’ rimasta soltanto la sua bicicletta: una Bottecchia, da donna, che avrà almeno quarant’anni (la Bottecchia, purtroppo, non la donna, magari). Se la porterà a casa.
Adriano aveva ereditato passione e professione dal padre, anche se le sue origini mantovane s’incrociano con quelle dei fratelli Azzini, pionieri del ciclismo italiano (Luigi, Ernesto, il primo a vincere una tappa al Tour de France, e Giuseppe). I vecchi del quartiere ricordano Adriano, le onde dei capelli non innevate come appaiono adesso, sempre alle prese con carburatori e camere d’aria, fili dei cambi e pattini dei freni, sospensioni da caricare e sellini da sostituire, a una cinquantina di metri di vicinanza, all’angolo fra via Guglielmo Silva e via Sebastiano del Piombo.
Sporcandosi le mani di grasso, tanto che, se non la patina, almeno il colore gli rimarrà indelebile, Adriano ha conosciuto generazioni di vespisti e lambrettisti, di ciclisti più o meno urbani negli itinerari e anche nei modi, di sidecar e tandem, di mamme con seggiolino posteriore e di papà con seggiolini anteriore e posteriore, di moto da trial e bici da corsa.
A suo modo diagnosticando e curando, guarendo e resuscitando, e sempre in dialetto milanese, Adriano ha trasformato l’officina in una sorta di Asl, centro sociale, casa per anziani, biblioteca (la sua copia quotidiana della “Gazzetta dello Sport” veniva letta da decine di interisti, milanisti, agnostici e miscredenti), perfino meta di villeggiatura. Il fresco che regnava lì dentro, d’estate, era impagabile. Talmente impagabile che, al massimo, ci scappava un caffè. E intanto, in più di mezzo secolo trascorso frugando nel corpo degli scooter e nell’anima dei telai, Adriano – le memorie di Adriano - ha visto anche una Milano passare dalle “scarp de tenis” alle Timberland, dal “gamba de legn” alla metropolitana linea lilla, dalle botteghe degli artigiani a un’enciclopedia di luoghi – ristoranti, autogrill, bar, pizzerie, sushi, kebab – devoti alla pausa pranzo di impiegati e dirigenti.
Dal primo gennaio un’officina in meno per le due ruote e un locale in più per la gastronomia. La vita sarà anche una ruota, ma stavolta la ruota ha forato. E senza Adriano, bisogna ripararsela da soli.
Marco Pastonesi