E’ andato a cercarsi su Google. Fra testi e foto, si è ritrovato in una figurina Panini di cinquant’anni fa. Il prezzo: tre euro e mezzo. “Non pensavo di valere così poco”, ha commentato. Sorridendo.
Eppure Renato Laghi può vantare almeno tre primati. Il primo lo stabilì alla nascita. Era l’8 dicembre 1944 e la Romagna tremava sotto i bombardamenti. Renato nacque così, non in ospedale, come si dovrebbe, non in casa, come si usava, ma in un rifugio antiaerei. Fra preghiere e ringraziamenti, sussurri e grida, sospiri e ululati. Un inizio duro. “E deve essere nata così la mia vocazione per le strade in salita”.
Il secondo record, che detiene a pari merito (per dirne due, di comproprietari: Gino Cavalcanti e Arnaldo Caverzasi), riguarda il numero di giorni consecutivi di corsa: 33, nel 1971. Così divisi: dal 20 maggio al 10 giugno, pari al prologo, alle 19 tappe e alle due semitappe, totale 22, del Giro d’Italia, e dall’11 al 18 giugno, pari alle otto tappe e alle due cronometro individuali, totale 10, del Giro di Svizzera, e il 20 giugno, campionato italiano di ciclismo al Gran premio Industria e Commercio di Prato. E’ vero che ci sono due giorni di riposo, anzi, di trasferimento, il 1° e il 19 giugno, ma non è il caso di sottilizzare.
Il terzo record, il più importante, riguarda la sua salute, anzi, la sua salvezza: tutte le volte che ha rischiato la vita, fuori corsa, e tutte le volte che ha rischiato la pelle, in corsa, quando i suoi capitani minacciavano di ammazzarlo se non avesse spinto, tirato, aiutato, portato, inseguito, chiuso, e perfino se non avesse vinto.
La prima bici di Renato Laghi, romagnolo di Errano, a sei chilometri da Faenza, era una Alpi, artigianale, rossa, usata. Aveva 15 anni, lui e forse anche la bici, e la pagò 20mila lire, 10 euro di adesso, ma una enormità di allora, frutto dei suoi risparmi: “Andavo nei campi dietro ai trattori, raccoglievo le schegge delle granate di guerra e poi le vendevo ai ferrivecchi, agli straccivendoli”. Si era innamorato della bici e del ciclismo a cinque anni: “Giro di Romagna del 1949, passò Fausto Coppi, con cinque minuti di vantaggio sul gruppo. Ne rimango colpito per sempre”. Elementari, poi avviamento commerciale, cioè francese, stenografia, dattilografia, computisteria, poi nei campi a lavorare, e a raccogliere le schegge delle granate. La prima corsa un lunedì di Pasqua, a Solarolo: “Pronti via a tutta, io davanti a tirare, un tizio incollato a succhiare la mia ruota e tutto il gruppo dietro a inseguire, io che continuavo a tirare, il tizio che continuava a succhiare e il gruppo che continuava a inseguire, finché all’arrivo il tizio che succhiava la mia ruota mi superò e vinse”.
Renato era piccolino, mingherlino, 50 chili di pelle e ossa, ed essendo di dicembre concedeva mesi, trimestri e semestri agli altri corridori. Ma in salita volava. E volò al professionismo: “Gregario. Il capitano più difficile? Vito Taccone, un matto duro. Il capitano più umano? Franco Bitossi, un cuore matto ma anche un cuore buono. Mi voleva così bene, Bitossi, che quando cambiava squadra, mi portava con sé, e faceva tutto lui, contatti e contratti, strappava il meglio che si poteva. E gli volevo così bene, che quando arrivò secondo ai Mondiali di Gap, lui piangeva sul palco e io piangevo alla tv”.
Laghi è un giacimento di storie: “Quella Tirreno-Adriatico, in fuga, da solo, verso Pescasseroli, poi la cotta, una crisi di fame, tremenda, non avevo più benzina, non vedevo più la strada, ero fermo, facevo così pena che gli altri corridori, superandomi, mi regalavano una spinta, altrimenti sarei ancora là”, “Quella cronosquadre Lecce-Brindisi al Giro del 1971, con la Filotex, una moto che scivolò e io che gli franai addosso”, “Quel Campionato di Zurigo del 1972, ancora con la Filotex, giù da un burrone, mi salvai su un abete, poi feci una scalata per riportare me e la bici sulla strada”, “Quella cronostaffetta sul Ghisallo, a tre, noi della Germanvox, in prima frazione il reggiano Giuseppe Milioli, in seconda il danese Ole Ritter, in terza io, all’ultimo mi scappa la pipì, torno in albergo, e quando ero in camera sentii lo speaker che annunciava l’arrivo di Ritter, era andato come una moto, scesi di fretta, incontrai Ritter che non mi aveva trovato, aveva proseguito e adesso stava tornando indietro, il direttore sportivo Italo Mazzacurati mi giurò che mi avrebbe messo sotto con la macchina, non sono mai andato così forte in vita mia”.
Ne ha vinta una sola, Laghi, ma che corsa: “Giro d’Italia 1977, diciassettesima tappa, la Pinzolo-San Pellegrino Terme, in fuga dalla partenza con altri cinque uomini fuori classifica, c’era anche lo spagnolo Domingo Perurena, cinque salite, Campo Carlo Magno, Tonale, Presolana, sul Colle Zambla li staccai, sul Dossena incrementai il vantaggio, arrivai con 1’32” sul secondo, Gaetano Baronchelli. Bitossi, al fotografo Sergio Penazzo, aveva promesso che, se non avessi vinto, mi avrebbe ammazzato”. E a Milano, foto-ricordo, il Duomo sullo sfondo, con la targa d’argento riservata alla fuga più lunga e con il maggiore distacco, donata da Claudio Ferretti in memoria di suo padre Mario, e intitolata “Un uomo solo al comando”.
Da Coppi a Laghi. La ruota gira. La ruota torna. A volte.
Marco Pastonesi