Siamo tutti sulla stessa barca. I corridori a due ruote, se no che corridori sarebbero. Noi a quattro ruote, se no che “suiveurs” saremmo. “Suiveurs”: quelli che seguono, che inseguono, che altro.
Davanti, alla guida, Mario Manzoni: bergamasco, da corridore lo chiamavano “il Poeta” (per amore di precisione, a chiamarlo così, era Marco Pantani, che fu anche suo capitano), si immagina più per il cognome che non per i versi, le liriche, gli endecasillabi, e adesso è il direttore sportivo della Nippo-Vini Fantini. Davanti, al posto del navigatore, il molto onorevole signor Koichi Murata: giapponese, responsabile della Irc, colosso nel settore pneumatici, fornitore della Nippo-Vini Fantini. Dietro, dalla parte destra (e non a caso: le auto al seguito devono fermarsi sulla destra della strada), Alessandro Stocco: veneto di Castelfranco, ma adesso a Monselice, da corridore ha disputato due Giri d’Italia per dilettanti, diploma di elettricista e professione di meccanico, al terzo anno qui alla Nippo-Vini Fantini.
Stocco è abbracciato a una ruota anteriore e a una posteriore, alla sacca delle mantelline, a una borsa dei ferri e a due borracce, e intanto – carta e penna – annota i numeri dei corridori in fuga, smanetta sul telecomando e ogni tanto telefona. Controllo se ha quattro o cinque braccia e otto o nove mani, ma siccome vedo soltanto due braccia e due mani, penso subito a qualche diabolico gioco di prestigio.
Il via ufficioso alle 10.45, il via ufficiale alle 10.56, i tre chilometri tra il via ufficioso e il via ufficiale dovrebbero essere “incolonnamento” e “sfilata” perdipiù “cittadina”, ma vissuti in fondo al gruppo suonano già come una frustata. L’ammiraglia della Nippo-Vini Fantini è la diciannovesima (su 22) della colonna che segue, insegue, e altro, il gruppo per 175 chilometri, di cui 61 sterrati in 11 tratti, delle Strade Bianche.
Le Strade Bianche sono la prova dell’esistenza di dio: il dio del ciclismo. E sono anche la prova dell’esistenza di almeno un santo: san Cristoforo, cui è delegata la protezione, se non la sopravvivenza, degli automobilisti e dei motociclisti, dei viaggiatori e dei viandanti, probabilmente anche dei corridori e dei “suiveurs”, e che per questo avrà oggi una giornata durissima. Centosessantasette partenti partiti. A tutta.
Il cielo è oceanico, la città muraria, la giornata malata. Il vento è ovunque. La strada è grigia, poi bianca. Bianca di sassi e polvere, di campi e carri, di memorie e biciclette. Un teatro bianco, un palcoscenico bianco, un’officina bianca. Una corsa da fare col dio mio addosso, come predica Manzoni, una corsa da gamba piena, come sospira Stocco, una corsa bellissima, come sillaba il molto onorevole signor Koichi Murata. Una corsa centrifuga e centripeta, una corsa bestiale e pazzesca, una corsa che finché non ci sei dentro – da corridore, ma anche da “suiveur” – non sai che cosa significhi, non sai che cosa ti perdi, non sai non sai non sai. La corsa parallela di due ammiraglie in un viottolo che ne potrebbe contenere – si vede a occhio nudo, e ci giureresti, ci scommetteresti – soltanto una, i primi due che attaccano al primo chilometro e i primi due che si staccano al quindicesimo, la pioggia che è pioggerella, la strada che non è più bianca, le richieste di mantelline, clacson, il vantaggio degli attaccanti, attenzione a una rotonda, una inchiodata e altre ventuno inchiodate, la pioggia che è pioggia, clacson, la strada che è fango, le richieste di ruote, il cartello “dai dai forza forza”, clacson, la pioggia che è acquazzone, le domande dei corridori alle ammiraglie, il gruppo compatto, attenzione a un incrocio, i fotografi, una sgommata e altre ventuno sgommate, clacson, le richieste di borracce, la pioggia che è tornata pioggia e pioggerella, il cartello “bravi tutti”, la strada che è colla, le risposte delle ammiraglie ai corridori, clacson, i meccanici con le ruote pronte in salita, il fan club di Diego Rosa, il vantaggio dei nuovi attaccanti, clacson, attenzione a un dosso, le richieste di mantelline, la strada che è improvvisamente polvere, clacson, le domande delle ammiraglie ai corridori, il vantaggio che aumenta, clacson, attenzione a uno strappo, gli stessi meccanici – già qui, non è possibile – con le ruote pronte su un’altra salita, clacson, la strada che è arata, clacson, il fan club di Enrico Battaglin, clacson, il vantaggio che si dilata, clacson, i cercatori di borracce, clacson. E ogni tanto, come per studiata ironia, l’invito di Radio Corsa alla prudenza. Clacsoooooon.
In tutto questo: Eduard Grosu che paga la febbre con il ritiro, Alan Marangoni che non ha digerito la colazione e la vomita, Yuma Koishi che soffre mal di pancia e cerca un albero per nascondersi e liberarsi, Kohei Uchima che cede, Nicola Bagioli che molla, solo per rimanere nella Nippo-Vini Fantini, ma abbandona anche un guerriero come il campione del mondo Peter Sagan, il viso scolpito e tirato come Cristo in croce, le Strade Bianche come un calvario. In tutto questo: Stocco che sfodera nuovi tentacoli e distribuisce panini morbidi al prosciutto crudo, tartine alla cioccolata, banane, bottigliette di acqua minerale (naturale o gasata?, ha perfino l’eleganza di domandare), minilattine di Coca-Cola.
Come da precedente accordo, smonto al chilometro 94, località Ponte d’Arbia, sede del rifornimento, tira un vento irlandese e la vera corsa non è ancora cominciata. Resisto alla tentazione di chiedere un passaggio al camion-scopa: i corridori raccolti per strada hanno l’aria dei naufragi salvati su un canotto: pestati, invecchiati, annichiliti, caduti e dispersi, ritrovati, come chi ha già visto la fine del mondo, ma la fine gli è rimasta dentro e il mondo addosso. E guadagno il traguardo su un’altra macchina della Nippo-Vini Fantini.
Il ciclismo, a chiamarlo sport, non dici la verità.
Marco Pastonesi