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CONTADOR A CA' DEL POGGIO: SFIDE, ANEDDOTI E LA VITA DA IMPRENDITORE
di Carlo Malvestio | 16/10/2025 | 08:33

Da fuoriclasse a imprenditore il passo è breve. O almeno è ciò che si percepisce sentendo parlare Alberto Contador. L’ex ciclista madrileno - che in carriera ha vinto 2 volte il Giro d’Italia, 2 Tour de France e tre Vuelta a España, per un totale di 68 vittorie da professionista - è stato ospite di Alberto Stocco a Ca’ del Poggio, dove ha colto l’occasione per raccontare la sua metamorfosi da straordinario scalatore a datore di lavoro. Dopo il ritiro dall’attività agonistica avvenuto nel 2017, Contador ha infatti fondato il suo marchio di biciclette, Aurum, insieme al fratello Fran e a un altro due volte vincitore del Giro, Ivan Basso, oltre a diventare il proprietario di una squadra professionistica, la Polti VisitMalta, che utilizza le sue biciclette e ne è la maggiore promotrice. L’evento a Ca’ del Poggio è nato da un’idea dell’azienda Lechler, che progetta e fornisce la colorazione delle bici Aurum.

«Ci sono alcune aspetti comuni nell’essere corridore o imprenditore - racconta Contador -. Se vuoi fare bene il tuo lavoro, devi sempre mettere il 100% di te stesso. La filosofia è la stessa e l’attenzione ai dettagli diventa fondamentale. Nel 2015 ero in ritiro sul Teide, alle Canarie, con Ivan Basso, e con lui abbiamo cominciato a parlare della necessità di creare qualcosa che non c’era, una bicicletta che avesse determinate caratteristiche e venisse incontro alle nostre esigenze ma anche a quelle di tanti appassionati. Così dopo il ritiro, in cerca di nuovi obiettivi e sfide, ho deciso di aprire il mio marchio. Non ho le competenze di un designer o di un ingegnere, ma per esperienza riesco a capire quando un prodotto è buono o meno». Non a caso, Contador è lui stesso il tester delle biciclette: «Quando era ancora corridore capitò che il marchio per cui correva gli chiese dei feedback sul nuovo telaio, e lui disse chiaramente che il modello vecchio, per svariati motivi, era molto meglio di quello appena presentato - racconta divertito suo fratello Fran -. Così l’azienda dovette cestinare il lavoro di mesi e rifare tutto. Da lì, per ogni nuova bici, è stato introdotto il ‘test Contador’».

La chiacchierata con vista sulle splendide Colline del Prosecco Conegliano-Valdobbiadene è stata anche l’occasione per ripercorrere alcuni dei momenti topici della sua carriera. Aneddoti che gli era già capitato di raccontare, ma che gli appassionati ascoltano sempre volentieri, soprattutto se arrivano direttamente dalla sua voce appassionata.

L’ANEURISMA e LA VITTORIA AL TOUR DOWN UNDER 2005 - «L’ho detto e lo ripeto, quella per me è stata la vittoria più importante della carriera. L’anno prima, durante la Vuelta a Asturias, sentivo di non stare bene, avevo dei continui giramenti di testa e sono rimasto coinvolto in una caduta. Si pensava che i problemi fossero dovuti alla caduta, ma io sapevo che non era così, sono tornato a casa e i giramenti non si placavano. Sono stato ricoverato con un aneurisma cerebrale e ho rischiato di rimanere paralizzato per metà del corpo. Per fortuna non è stato così, ma in quel momento tornare in bicicletta era l’ultimo dei miei pensieri. E invece settimana dopo settimana mi sono reso che potevo essere ancora un professionista. Sono tornato a correre al Tour Down Under 2005, era già una vittoria essere lì, e invece sono pure riuscito a vincere la tappa regina. Una gioia difficile da descrivere».

IL GIRO DEL 2008 - «Quell’anno l’Astana non era stata invitata al Tour de France e, fino a una settimana prima del via, neanche al Giro d’Italia. Tutta la mia stagione era quindi improntata sulla Vuelta a España e i Giochi Olimpici. Poi gli organizzatori del Giro ammisero la squadra ad una condizione, dovevo esserci anch’io. Johan Bruyneel mi chiamò per annunciarmi la notizia, ricordo che ero via con la mia compagna. Protestai, perché stavo preparando con meticolosità la seconda parte di stagione, in maggio soffro di allergie, e quello non era certo il momento di correre un Grande Giro. Johan mi assicurò che sarei potuto andare a casa dopo una settimana e preparare il Giro del Delfinato, ma dovevo esserci. Tornando a casa dissi alla mia compagna di tirare fuori le altimetrie del Giro, feci un weekend di allenamenti e poi partii per la Sicilia, da dove cominciava la corsa. Avevo 30-40 battiti in più rispetto ai miei compagni, non ero in forma. Le prime tappe però non erano difficilissime e la gamba migliorava. Persi qualche secondo perché non riuscivo a stare dietro a Di Luca e Piepoli. Bruyneel mi ripetè che, se volevo, potevo tornare a casa. Gli dissi di aspettare la cronometro di Urbino e poi avremmo valutato. Feci 2° e a quel punto ero in piena lotta per la maglia rosa. “Rimango” gli dissi, e lì è cominciata la lotta per vincere il mio primo Giro».

LA VUELTA DEL 2014 - «Al Tour caddi malamente in discesa e rimediai una microfrattura della tibia. Ricordo che mi alzai e vidi l’osso, prima che cominciasse a sgorgare il sangue. La squadra, la Saxo Bank, aveva già deciso di fare il programma per l’inverno e preparare la stagione seguente. Anche il medico mi disse “è impossibile tornare a correre prima della fine della stagione”. Ma io volevo essere alla Vuelta, feci alcuni allenamenti sui rulli pedalando con una gamba sola e mi presentai al via. Alla vigilia feci un discorso alla squadra dicendo che non avevo alcuna aspettativa, che era già bello essere lì. E invece mi ritrovai che andavo fortissimo e vinsi contro Froome. Alla fine, scherzosamente, regalai una maglia rossa al medico che mi aveva detto che la stagione era finita».

IL GIRO DEL 2015 - «La giornata sul Mortirolo è stata probabilmente la più dura della mia carriera. Forai in discesa prima della salita con Basso che mi diede la ruota, proprio quando la Katusha stava spingendo a tutta. A quel punto anche l’Astana ha cominciato a tirare e ho cominciato la salita con un minuto di ritardo ed ero già a tutta. Ho fatto una cronoscalata con la smania di recuperare, ho cominciato a tranquillizzarmi solo quando all’orizzonte ho visto Aru e Landa e, soprattutto, la faccia di Aru stravolta. Mi sono salvato bene ma alla sera ero completamente vuoto, distrutto, come mai mi era capitato in carriera. Non riuscivo a fare nulla, nemmeno a mangiare, ed ero pure nervoso per l’attacco subito. Ricordo che in camera Basso disse “ecco, hanno svegliato la bestia”».

ANGLIRU 2017 e RITIRO - «Prima del Tour de France avevo fatto alcuni dei test migliori della mia vita. In Francia, però, non va come deve andare e prendo la decisione di ritirarmi. Chiamo Luca Guercilena e gli comunico la mia scelta, ma gli chiedo anche un paio di uomini per supportarmi alla Vuelta, la mia ultima gara davanti ai miei tifosi, perché la squadra sulla carta sarebbe andata in Spagna per supportare John Degenkolb. Nei primi giorni di gara alcuni problemi allo stomaco mi fanno perdere un po’ di tempo, ma lo interpreto come un segno del destino. Mi si apre la possibilità di fare una corsa come piace a me, sempre all’attacco. Ci provo sempre, appena si apre uno spiraglio, tanto che Nibali alla mattina veniva a chiedermi “Alberto, attacchi anche oggi?”. La vittoria però non arriva, così nel giorno dell’Angliru, prima del via, raduno i miei compagni e dico “ragazzi, oggi facciamo la storia”. Attacco dal gruppo maglia rossa, riprendo tutti i fuggitivi e comincio la salita finale con circa 40 secondi sui favoriti. Il pubblico è pazzesco, mi galvanizza, sento gente che mi dice “non ritirarti”, “ripensaci”, c’è un boato incredibile. Anche i miei avversari sembrano tifare per me, i gemelli Yates e Enric Mas, che erano in fuga, tirano qualche metro per me. Cerco di godermi l’affetto della gente perché sono le ultime pedalate da professionista, ma allo stesso tempo continuo a ripetermi “è la tua ultima chance, devi farcela”. Dietro Froome e Poels arrivano molto vicini, ma riesco a vincere. Ce l’ho fatta, ho chiuso proprio come volevo, da vincente, al top! E ancora oggi quella vittoria mi trasmette calma e relax, non c’era davvero modo migliore di chiudere».

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