La soluzione è rivelata all’inizio della seconda pagina: a Madonna di Campiglio, nel giugno del 1999, è stata commessa una frode sportiva ai danni di Marco Pantani. Il resto è la ricostruzione della vita breve e delle morti infinite, prima quella sportiva, poi quella fisica, infine quella processuale, dello scalatore di Cesenatico. Un libro incalzante, appassionante, documentato, drammatico, inquietante, puntuale. E una lettura da apnea.
Luca Steffenoni ha scritto “Il caso Pantani” (Chiarelettere, 154 pagine, 12 euro). Anche il sottotitolo – “Doveva morire” – dichiara subito il pensiero dell’autore: Pantani vittima prima di una truffa della camorra per le scommesse clandestine, poi di una persecuzione giudiziaria e giornalistica, infine di un regolamento di conti legati alla sua tossicodipendenza o forse anche alla stessa frode sportiva di cinque anni prima. Un sipario che è definitivamente calato, un cerchio che si è definitivamente chiuso.
“Il caso Pantani”, nonostante il colore della copertina, non è un giallo. E’ una storia di sport, è un mistero italiano, è una tragedia umana. A suo modo, esemplare. Prima l’altare, poi la polvere. Prima la gloria, poi lo scandalo. Prima la salita, poi la discesa, il precipizio, il vuoto. Prima il paradiso, poi l’inferno. Prima la folla, le folle, poi la follia e la solitudine. Ed è una storia conosciuta, ma che qui è ripresa, ripercorsa, riletta, riassunta, alla luce anche delle testimonianze nei più recenti procedimenti giudiziari. E che Steffenoni imposta partendo dalla denuncia del “bel Renè”, Renato Vallanzasca, criminale che ha collezionato quattro ergastoli e 295 anni di reclusione (fonte: Wikipedia), convinto che tutto cominci da Rosario Tolomelli, boss del quartiere napoletano Sanità, che da detenuto gli propose di scommettere, anzi, addirittura di finanziargli la scommessa contro “il Pelatino” al Giro d’Italia 1999.
Si sa che nel caso Pantani sono state commesse leggerezze, incongruenze, contraddizioni, errori, anche enormi. Innanzitutto proprio quel 5 giugno 1999, il giorno della morte sportiva, al controllo antidoping a Madonna di Campiglio: la provetta non sigillata, la mancanza della seconda provetta per le controanalisi, l’anomalia dei dati fra ematocrito, emoglobina e piastrine. Infine proprio quel 14 febbraio 2004, il giorno della morte fisica, non tanto nel sopralluogo degli agenti della squadra mobile nel residence di Rimini, quanto nella fretta di tirare le conclusioni: suicidio per overdose di cocaina. Steffenoni – prima di lui lo avevano fatto, fra gli altri (ma non c’è la bibliografia), anche Philippe Brunel con “Gli ultimi giorni di Marco Pantani” (Bur, 2008) e Andrea Rossini con “Delitto Pantani: ultimo chilometro” (Nda press, 2014) - elenca, precisa, spiega, chiarisce.
Meno obiettività c’è schierandosi dalla parte dei genitori di Marco, partecipi di un dramma terribile, impreparati e forse anche impotenti davanti alla ferocia e alla crudeltà della situazione, probabilmente anche mal consigliati, almeno proprio in quegli ultimi giorni fatali, quando se ne andarono in vacanza, in camper, in Grecia. E meno obiettività c’è anche schierandosi contro quei giornalisti che cercavano comunque la verità, forse traditi, offesi, delusi, sorpresi, disorientati dai comportamenti di Marco. L’autore salva Gianni Minà, che si prestò a un’intervista inginocchiata, e accusa Candido Cannavò, che usò parole piene di forza e dolore, più da padre che da direttore, e comunque sempre da paladino dello sport e difensore dell’etica.
Pantani è stato suicidato: questa la tesi che avevo azzardato anch’io in “Pantani era un dio” (66thand2nd, del 2014). Ma Pantani non era un santo: Pantani non è pulito, come si esclama nelle ultime tre parole del “Caso Pantani”, Pantani non era pulito, su Pantani ci sono dati evidenti e prove schiaccianti negli archivi di Francesco Conconi, Pantani faceva parte di un sistema – quelli erano gli anni di piombo del ciclismo – malato, inquinato, corrotto, Pantani faceva uso di Epo, e forse anche di droghe, molto prima di quanto sostenuto da Steffenoni, e Pantani fece uso di Epo anche durante il Tour de France 1998, secondo la Commissione d’inchiesta del Senato di Francia analizzando a posteriori i campioni di sangue prelevati ai corridori.
Pantani era un uomo sensibile e generoso, allegro e profondo. La sua storia esige conoscenza. La sua fine merita rispetto. E la sua tragedia ha solo sconfitti.
Marco Pastonesi