“L’angelo bianco” aveva una Legnano da corsa, con il cambio Campagnolo a bacchetta, a due leve, una per lo sgancio della ruota, l’altra per la posizione della catena. Quando era a Bormio, saliva e scendeva dallo Stelvio. Quando era all’Abetone, a casa, inseguiva le corriere. La bici gli serviva per fare fiato e gambe. Per volare, “L’angelo bianco” usava gli sci.
A raccontare e ricordare Zeno Colò, l’altro giorno, proprio alla Casina sull’Abetone, per il festival Letterappenninica. A scoprire e svelare, a spiegare e precisare, anche a difendere e restituire quello che non gli era stato dato o gli era stato tolto. Lui, il Coppi della libera. Lui, il Mangiarotti dello slalom. Lui, il Consolini del gigante. Lui, il Carnera del chilometro lanciato. Lui, che negli anni Quaranta e Cinquanta collezionò titoli olimpici, mondiali e italiani nelle specialità alpine, e se non ci fosse stata la Seconda guerra mondiale, ne avrebbe conquistati il doppio.
Zeno Colò, che aveva un cuore grande così, 43 battiti al minuto, ma anche una sensibilità speciale per i bambini. Zeno Colò, che invece delle gambe aveva due tronchi, tant’è che solo lui poteva tenere quella posizione a uovo, arretrata, che gli permetteva di penetrare nell’aria sottile di Cervinia e Wengen, Oslo e Aspen, e di tronchi se ne intendeva, faceva il boscaiolo. Zeno Colò, che aveva imparato a sciare proprio grazie ai maestri d’ascia - l’Abetone è il regno degli abeti e dei faggi -, e le travi, lavorate, scheletrite, ricamate, si trasformavano in sci. Zeno Colò, che durante la guerra riuscì a gareggiare in Svizzera sotto falso nome, Blitz, lampo, perché lui e i suoi non avessero problemi. Zeno Colò, che inventò la tuta con la guaina aderente per scivolare contro il vento, e i lacci ai pantaloni larghi. Zeno Colò, che batteva le piste con una pala di metallo per spostare la neve e creare gobbette e trampolini per renderle più difficili e spettacolari (e spesso i concorrenti, ignari delle modifiche, dovevano essere recuperati appesi agli alberi).
A parlare di Zeno Colò c’erano amici, seguaci e discepoli: da Flavio Roda, presidente della Federazione italiana sport invernali, a Franco Matteucci, autore e regista televisivo e scrittore (Zeno compare nel suo “Il profumo della neve”), a Riccardo Crovetti, che di Zeno ha scritto la biografia “Sulle tracce dell’angelo bianco”. Tutte quelle volte che Zeno Colò tornava da una battuta di caccia con il cane, sfinito, al collo. Tutte quelle volte che Zeno Colò sgommava sulla sua Abarth 850, e poi fino sulla sua Ford Cosworth, obbligando i pedoni a scansarsi dalla strada. Tutte quelle volte che fumava le Nazionali semplici, anche subito prima, e anche subito dopo la gara (e morì per un tumore al polmone). Tutte quelle volte che accettava di fare l’apripista, ma solo se il tracciato della pista gli piaceva perché lo riteneva di grande qualità. E quella volta che si domandava se, nel chilometro lanciato, se si andasse più veloci con uno o due sci. E quella volta che s’incontrò con Gustavo Thoeni e i due, campioni anche nel silenzio, si salutarono con un nudo, semplice, essenziale, doppio ciao.
Marco Pastonesi