“ERCOLE” di nome e di fatto verrebbe da dire per Gualazzini, il possente corridore di San Secondo Parmense dove è nato il 22 giugno del 1944. Era una vera e propria forza della natura che in pianura la cedeva a pochi e pure in volata sapeva dire la sua anche al cospetto degli sprinter patentati. Sono attorno alla quindicina i successi che ha conseguito nella sua carriera professionistica iniziata nel 1966 e conclusa nel 1978. Fra i successi spiccano quattro tappe al Giro d’Italia nel 1971, 1974, 1976 e 1977, due al Tour de France (1972 e 1974) e, per completare il palmarès pure una tappa alla Vuelta Espana 1969. Un “triplete” che non appartiene a molti, rivelatore di costanza di rendimento e presenza non formale, di specifica qualità.
E’ etichettabile come un “gregario”, anzi un “gregarione” di ferro, di sicuro e assoluto rendimento per il quale il lavoro duro e la fatica non costituivano problema. E nella sua carriera ha collaborato con capitani d’assoluto valore come Felice Gimondi, Italo Zilioli, Roger De Vlaeminck, Patrick Sercu e Giuseppe Saronni avendo vestito nel 1966 e ’67 la maglia Salvarani, nel biennio ’68-’69 quella della Max Meyer, ritorno alla Salvarani nei tre anni successivi, passaggio alla Bianchi nel 1973, tre anni con le insegne Brooklyn per concludere con l’altra squadra di casa, la Scic, nel ’77 e nel ’78. Sono state formazioni poste ai vertici del movimento professionistico di quel periodo e, dove i ruoli erano ben definiti e la disciplina di squadra aveva logiche precise, prefissate. E “l’incredibile Hulk”, uno dei soprannomi che lo definivano verso il fine carriera per rendere l’idea di forza e potenza che la sua figura emanava, sapeva mettere bene a frutto le occasioni che gli si prospettavano.
Un esempio della sua straordinaria forza veloce, unita a resistenza, è stato la vittoria ottenuta nella quarta tappa, la Potenza-Benevento, del Giro d’Italia 1971. Era alla Salvarani e il suo compito era di tirare la volata a Dino Zandegù. Cade nella parte finale della tappa, è aiutato dal suo amico, compagno, parmense pure lui, Emilio Casalini (è sempre ricordato come il “fante del Grappa” per la sua vittoria alla tappa del Giro 1968 che finiva al Monte Grappa) a rientrare in tempo per tirare la volata a Zandegù. Tira tanto che nessuno più lo supera e, dietro Gualazzini, si classificano, nell’ordine, straordinari sprinter come Sercu e Basso. Il gruppo alle loro spalle, sul viale Principe di Napoli della città sannita, dopo il ponte Vanvitelli, è vittima di una scenografica caduta collettiva, un vero e proprio mucchio selvaggio.
Ercole Gualazzini, con i suoi compianti grandi amici Vladimiro Panizza e Giacinto Santambrogio, era fra i corridori più ascoltati del gruppo e non solo per il suo vocione, in abbinata alla complessione fisica. Portavano avanti le richieste della categoria nei talvolta serrati e aspri confronti con gli organizzatori, anche in corsa, con fiero cipiglio. Quando però c’era da correre, da menare, a tutta, giù la testa e pedalare, pedalare, muovendo il rapportone, per chilometri e chilometri. Era pure difficile dare il cambio a “la Gualazza”, il soprannome che lo distingueva in gruppo.
Conclusa la carriera di pedalatore, cambia diametralmente la prospettiva e si impiega in banca dove, per ufficio, racchiude la sua prorompente muscolatura in un abito di grisaglia con tanto di camicia e cravatta d’ordinanza.
Da qualche anno si gode la pensione e ha trovato maggiore tempo disponibile per andare in bicicletta con gli amici di un tempo e di sempre contando, per la cura e la manutenzione del suo mezzo che deve sopportare e supportare peso e forza ancora rilevanti, sull’amico Mario Mordonini, meccanico parmigiano di lungo corso e comprovata abilità.
Altro “impegno” di Ercole è di seguire il nipote, figlio della figlia Samuela, Alberto Cerri, calciatore professionista tesserato per la Juventus, ora in prestito alla Spal, attaccante che ha già rivestito con successo la maglia azzurra nell’Under 21. Per delineare le caratteristiche fisico-tecniche del “nipotino” c’è da riferire che il suo soprannome è quello di “Ibrahimovich della via Emilia”.
Buon sangue…. con quel che segue.
Giuseppe Figini