Mantiene sempre, anche oggi, lo sguardo vivace, saettante, accompagnato da un costante e largo sorriso, la battuta sempre pronta, Luciano Armani, ottimo corridore professionista dal 1966 al 1973. Solo i capelli hanno mutato colore e sono, via via, diventati di un candido bianco. La data di nascita è il 12 ottobre 1940, a Felegara di Medesano, in provincia di Parma.
E’ buono il percorso di crescita nelle categorie minori con caratteristiche che lo situano fra i corridori definiti “completi”, veloce di gambe e di testa per inquadrare subito la situazione di corsa e agire di conseguenza, con rapidità, gambe permettendo.
Nel 1965 avviene il passaggio fra i professionisti nella squadra Bianchi-Mobylette e, praticamente subito, viene dichiarato vincitore della 7^ tappa del 48^ Giro d’Italia, la Potenza-Maratea. Il primo a passare il traguardo fu il compianto Vito Taccone, declassato però al 2^ posto per volata non regolare. Un episodio che vide i due protagonisti dare sfoggio di specifica eloquenza, calda, passionale, travolgente quella dell’abruzzese, sottile, razionale e pure ironica quella del parmense. Un episodio che, grazie anche alla straordinaria, unica, originale, ribalta del Processo alla Tappa di Sergio Zavoli fece conoscere la “verve” di Luciano Armani. Quella di Vito Taccone, che era ben più di “verve”, era già ben nota e conosciuta.
Dell’episodio hanno parlato, sorridendo distesamente però, circa cinquant’anni dopo, Armani e Cristiano Taccone, il figlio del grande Vito, in un incontro nel corso del tradizionale pranzo fra ex del Bici Club organizzata annualmente dall’appassionato Enzo Ricciarini a Narnali di Prato.
Nel 1965 Armani vince anche la Coppa Sabatini a Peccioli, in Toscana. E’ il 1966, nella Salvarani, quando, inevitabilmente, per contiguità d’origine e pure di carattere, “non di gambe però”, specifica Armani, la sua carriera incrocia e accompagna quella di Vittorio Adorni, talento puro come Felice Gimondi e di altri parmigiani-parmensi (Casalini, Gualazzini, Torelli e altri ancora) che tuttora costituiscono un’affiatata compagnia con un grande amico del ciclismo quale Tarcisio Persegona, parmense di Noceto, titolare della Tre Colli e del “record” stratosferico di scalate al Gavia e al Mortirolo.
Nel 1966 Armani s’aggiudica una tappa alla Parigi-Nizza e nel 1967, con la maglia della Salamini di Parma, altra azienda di cucine componibili, sempre insieme a Adorni, vince il Giro della Sardegna a tappe, rendendo così meno amara la breve esperienza del marchio nel professionismo.
L’anno successivo passa con il suo capitano nello squadrone Faema, dove trova anche Eddy Merckx e altri “big”. Completa l’excursus nel “ramo cucine”, settore merceologico allora molto in voga nel ciclismo, sempre con Adorni & C. targati PR, nella bianco-nera Scic, dove rimane fino al 1972. Nel Giro del 1970 vince per distacco la Dobbiaco-Bolzano, ultima tappa del Giro d’Italia n. 53, il secondo vinto da Eddy Merckx e, in fatto di successi, Armani conquista pure la Milano-Torino, la “decana” delle corse italiane.
Il nome del “Cannibale” è abbinato, con inusitata diffusione e visibilità internazionali per Armani, alla vittoria che il parmense conquistò nella tappa da Orciéres-Merlette a Marsiglia nel Tour del 1971 battendo in volata Merckx e altri. Sono duecentocinquanta chilometri di fuga “a tutta” con il vento mistral, partita subito al via, voluta e architettata da Merckx accompagnato dai coèquipier Rinus Wagtmans e Huysmans con Van der Vleuten, Bouloux, Aimar e Letort (in funzione di stopper a favore del compagno Ocana) e giunta al traguardo di Marsiglia a 45,351 di media oraria, con quasi un’ora e mezza d’anticipo su quella più alta prevista. Era la “risposta”, orgogliosa e rabbiosa, tipica di Merckx, alla sconfitta patita per mano dello spagnolo Luis Ocana che gli aveva inflitto un distacco di quasi nove minuti, strappandogli anche la maglia gialla, all’arrivo di Orciéres-Merlette in uno dei rari “jour sans” del belga. Merckx ne recuperò solo poco più due di minuti nella fuga-fiume e ritornò in giallo dopo l’incidente che costrinse Ocana al drammatico ritiro nella 14^ tappa, la Revel-Luchon, investito da altri corridori, accecati dalla tempesta, dopo essersi rialzato da una caduta nella discesa del Col du Menté, nei Pirenei.
Luciano Armani è orgoglioso di quella vittoria e sorride, conoscendo il “Cannibale”, a chi adombra una qualsiasi “benevolenza”, in quella circostanza, del belga. Orgoglioso è pure dell’esperienza in azzurro nel 1969, a Zolder, per difendere l’iride di Adorni. Chiusura della carriera nel 1973, con la GBC-Sony-Furzi.
E subito dopo inizia a lavorare nel settore della vendita d’auto, anche in posizioni di responsabilità, a contatto con la gente nella città ducale.
Il lavoro e la famiglia non gli lasciano molto spazio per il ciclismo che segue sempre e comunque con passione, con i suoi amici, più a tavola a dire il vero che sui pedali. Da due anni circa si gode un meritato riposo-attivo, così lo definisce, sempre sorridendo, Luciano Armani, sempre con immutabile spirito giovanile.
Giuseppe Figini