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L'ORA DEL PASTO. RESISTENZA CASALINGA? PERLE D'ARCHIVIO - 5
di Marco Pastonesi | 17/03/2020 | 07:38

 

Appunti, carta e penna, da una chiacchierata con Riccardo Magrini. Ora resuscitati e qui – finalmente – pubblicati.

“Superato, dopo alcuni infelici tentativi, l’esame di terza media, chiesi ai miei genitori un motorino. Si opposero. Se non un motorino, implorai, almeno una bicicletta da corsa. Mi accontentarono. Era una Torpado bianca. Ma non era la mia prima bici da corsa: la prima fu una Morini bianca e rossa”.

“Il bello delle corse, per chi come me non vinceva mai, era tutto quello che veniva prima: la preparazione, il confronto, l’attesa, la panca del meccanico, a turno. Ricordo uno spavaldo della Pozzarello che, indicando me, disse: ‘Se arrivo dietro a lui, smetto’. Gareggiavo, si fa per dire, per il Gruppo sportivo Moschini di Vianova, una frazione di Pieve a Nievole, a due passi da Montecatini. Indossavo una maglia larga bianca a scacchi neri, come quella della Peugeot di una volta, con i tasconi, e le braghe di lana, ero magro fino e brutto già allora”.

“Quella volta che mi tolsi la tuta e tutti scoppiarono a ridere. Nessuno mi aveva detto di farmi il pelo. Insomma, nessuno mi aveva detto di radermi le gambe”.

“Cominciai tardi: allievo secondo anno. C’era uno, Alessandro Cardelli, alto, freddo, con una bici blu e una maglia gialloblu, che le vinceva quasi tutte, venti su ventidue. Abitava a Vianova, ma correva per la Cantagrillo, la società che avrebbe poi formato corridori come Ballerini, Tafi e Bartoli. Era il mio, il nostro grande avversario”.

“Giro d’Italia 1983. Marco Groppo, maglia bianca al Giro 1982 e nostro capitano, dopo una nottata brava sulla prima salita andò diritto in una curva e si fermò come un chiodo. Era la tappa da Parma a Savona, quasi 250 chilometri. Lui si lamentava, sosteneva che il ginocchio gli facesse un gran male, ma io e Pierangelo Bincoletto lo sapevamo, più che il ginocchio era stato ben altro. Comunque lo affiancammo, lo incoraggiammo, lo riportammo in un gruppettino, un ‘retone’ in cui si era impigliato Giovanni Battaglin. Adriano De Zan lanciò il microfono a Giorgio Martino per l’intervista, ma Groppo non spiccicò parola. Dopo tutta quella fatica ci rimasi male, mi aspettavo un minimo di riconoscenza, arrivai perfino a pensare che sarebbe stato meglio lasciarlo là”.

“Tour de France 1983, la Nantes-Ile d’Oléron, 216 chilometri. L’albergo era a tre-quattro chilometri dalla partenza. Venne una troupe della tv francese, sapevano che ero un bischeraccio, volevano farmi cantare, dissi ‘oggi no, tornate domani’. Ero concentrato. Mi infilai in un gruppo che pedalava verso il foglio-firme. ‘Passiamo di qui che si fa prima’, ‘No, passiamo di là’, Lucien Van Impe girò a sinistra e si trascinò dietro tutti gli altri, io girai a destra e arrivavai primo. Lo vissi come un presentimento, lo presi come un presagio. Volevo fare la corsa. Il percorso era vallonato, il caldo scioglieva l’asfalto, la fuga non andava via e, proprio quando mollai, se ne andò ma senza di me. A una trentina di chilometri dall’arrivo Laurent Fignon coinciò a risalire lentamente il gruppo per portare davanti il suo amico e compagno velocista Pascal Jules, e io mi misi nella loro scia. Ero rimasto a secco, morivo di sete, chiesi al mio compagno Nedo Pinori di prendermi una borraccia. A quel tempo le poteva dare l’ammiraglia, ma la nostra stava in fondo al gruppo, la sedicesima o giù di lì. Quando tornò, mancava poco, e finalmente stavamo riprendendo gli ultimi fuggitivi. Dissi a Bincoletto di mettersi alla mia ruota, volevo che me la coprisse, invece lui non capì nulla, pensava che volessi tirargli la volata. Sul libro della corsa avevo studiato il finale: c’era una curva secca, verso destra, a novanta gradi, in leggera salita. Se avessi preso venti metri... Dall’alto qualcuno mi guardò. All’ultimo chilometro scattò Phil Anderson, Claude Criquielion gli andò dietro, i due si rialzarono, allora fui io a scattare, alla mia ruota non c’era più Bincoletto, perso chissà dove, ma Sean Kelly, che mi ignorò e a cui comunque feci cenno di stare fermo. Feci un numero: la curva a blocco, poi una fiondata. Erano sei anni che al Tour non vinceva un italiano. La felicità di quel giorno me la sono tatuata tutta la vita”.

“Tre giorni dopo si correva la Pau-Bagnères de Luchon, più di duecento chilometri, con Aubisque, Tourmalet, Aspin, Peyresourde e un quinto colle che non ricordo più. Insomma, avevano messo i Pirenei tutti insieme in una sola tappa. Sull’Aubisque, quando mi vidi passare anche dall’olandese Jan Van Houwelingen, un bestione di un metro e novanta, mi domandai dove andassi. E al primo rifornimento salii sulla seconda macchina della Metauro Mobili-Pinarello. Al secondo rifornimento c’era anche l’ammiraglia con Roberto Poggiali e Mauro Battaglini, che seguivano Van Impe. Battaglini urlò a Giuseppe Corna, il massaggiatore, per tanti anni anche all’Atalanta: ‘Di’ a Riccardo di non mollare’. Pensava che fossi in bici. Quando vide che ero in macchina, si intristì. E anch’io mi pentii di quel mio momento di debolezza”.

5 - continua

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