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LA POLVERE SOTTO IL TAPPETO
di Cristiano Gatti | 21/02/2020 | 08:05

A gennaio l’anniversario della nascita, a febbraio quello della morte: ogni anno, stavolta con la suggestione de cinquant’anni ipotetici, la tri­bù del ciclismo si raccoglie compatta attorno alla sua icona, una delle più care e venerate, Marco Pan­ta­ni. Peccato che puntualmente, im­mancabilmente, testardamente, ogni volta si chiudano le malinconiche celebrazioni con questo messaggio sotteso: era un martire, l’ha fatto fuori il mondo cattivo, che non lo meritava.

Inutile premettere che ero pure io pantaniano. Non ne farei alcun merito, né mio né di tutti gli altri: come facevi, allora, a non essere pantaniano. L’esalta­zio­ne pura per i suoi at­tacchi, su tutti quello del Ga­li­bier, contro Ullrich, che per coincidenza della storia ebbi il gusto di commentare con l’indimenticabile Adriano De Zan e con Da­vide Cassani, quando an­cora la Rai chiamava a turno tutti i giornalisti e non solo gli amichetti devoti, l’esaltazione per quel mo­do d’essere, unico e irripetibile, chi mai sarebbe riuscito a non pro­varla. Solo una categoria, di­ciamolo: gli invidiosi. Ma di questi pidocchi, che infestano il mon­do in tutte le età e in tutte le situazioni, non bi­sogna tenere conto. Nessuna piccineria può in­crinare il mito di Pan­tani. E neppure il doping: è ormai appurato storicamente che per quanto do­pato, batteva comunque dei do­pati come e più di lui, per cui il merito resta realisticamente in­tatto.

E qui mi fermo, trattenendo per me le foto con lui in ma­glia gialla sui Campi Eli­si e tanti ricordi di avventure comuni. Il resto, invece, proprio non riesco a condividerlo. L’idea del martire, giustiziato dalla cattiveria del mondo che non l’ha capito, come un Giordano Bruno o perché no un povero Cristo, questa idea non mi piace. Eppure, puntualmente salutiamo Pantani con questa conclusione collettiva. An­che stavolta. Perché questa catarsi senza se e senza ma, potrebbe chiedersi un ignaro sbarcato l’altra sera da Saturno. Io ho una mia risposta molto chiara e semplice: come diceva Tolstoj, la storia sui libri la scrive gente interessata, per mille mo­ti­vi, personali o ideologici, comunque gente con dei filtri davanti. Fil­tri deformanti. Su Pantani, prevale e si impone la versione co­struita nel tempo da una certa lob­by, ramificata da Cesenatico fino dentro importanti organi di informazione. E siccome a me non piace stare sul generico e sul fumoso, per capirci meglio faccio anche qualche nome e cognome, senza mancare di rispetto a nessuno.

Il Pantani martire del mondo cattivo trapela dai servizi del­la Rai, dove c’è un vicedirettore, la De Stefano, che ha strettissimi rapporti di amicizia con la famiglia Pantani. Suo marito ci ha pure scritto sopra un libro, il libro più critico nei confronti degli in­quirenti riminesi. Una musica più o me­no simile suona anche nei servizi Mediaset, dove da anni Davide De Zan combatte a suon di confutazioni chimiche e biologiche la bat­taglia del complotto e dell’intrigo, con Pantani stabilmente dalla parte della vittima. Ad un certo pun­to si è accodato pure Francesco Ceniti, della Gazzetta, anche se quell’epoca non l’ha vissuta direttamente e per quanto meticoloso deve comunque affidarsi a voci e ma­teriali di riporto. Sorvolo poi sull’innocentismo di cassetta, a prescindere, solo per lisciare il pelo alla pancia dei tifosi, di un certo giornalismo che dal primo minuto, senza un elemento in mano, sparò titoloni del tipo vergogna, Pantani è una vittima.

Rispetto al massimo grado il lavoro dei colleghi. Però niente e nessuno può im­pedirmi di dire, senza ipocrisie e buo­ne maniere di circostanza, che un certo lavoro di santificazione e martirio di Pantani sa molto di fiction. Cioè di testo liberamente in­terpretato. Si pesca quello che piace e si ignora quello che non è funzionale allo scopo. Un lavoro che mi ricorda certi videogiochi interattivi per bambini, quelli in cui è possibile cambiare a proprio piacimento la fiaba, facendo deviare Cappuccetto Rosso dal bosco in modo che non incontri mai il lupo. Ma se si vuole essere davvero rigorosi, cercando la verità comunque sia, non la verità che vogliamo, non è possibile, proprio non è possibile, omettere tutto il resto.

Quello che so io, quello che ho vissuto io, quello che non trovo mai nelle celebrazioni di inizio anno, è purtroppo molto penoso. È il Pantani che non dà retta e cancella dal suo ra­dar chi lo vuole aiutare, è il Pan­ta­ni che frequenta brutti giri notturni, è il Pantani che inesorabilmente si avvita sempre più su di sé, tra depressione e polvere. Come si fa a raccontare Pantani ignorando i disperati tentativi del Sert di Ra­venna, il ricovero con fuga dalla clinica specializzata di Teolo (Pa­do­va), l’invito (rifiutato) di un prete valoroso per un soggiorno di recupero nelle sue comunità in Su­damerica. Come si fa a ignorare le farneticazioni e i deliri che Marco lasciava scritti su libri, scatole di ce­rini, muri, preda ormai di spettri spaventosi. Questo e tutto il resto: soprattutto, gli ambienti e le persone che frequentava, dai peggiori spacciatori (persino nella clinica di Teolo gli portarono droga) fino agli squallidi parassiti che pensavano solo a salvare la slot-machine, raccontando il falso storico di un Pan­tani in grande ripresa. Questo e il resto, continuo a dire. Il resto che tanti amici intimi conoscono bene e che per pudore, per rispetto, per pietà, per amicizia vera, evitano di rimestare.

Pantani non ha vissuto una vita facile. Sin dall’inizio. Su questo sono tutti d’accordo. E proprio per questo, tante sue scelte sbagliate hanno valide attenuanti. Però restano scelte sbagliate. Siamo in presenza di una storia umana complessa, purtroppo tragica, certo stracarica di rimpianto. Eppure. Se ci piace raccontare che Pantani fu santo e martire, continuiamo così, ogni anno, puntualmente e devotamente. Ma se ci piace la verità, dovremmo evitare di nascondere la polvere sotto al tappeto.

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