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VIVIANI, I PENSIERI PROFONDI DEL NOSTRO PORTABANDIERA
di Giorgio Viberti | 05/07/2021 | 13:25

A Tokyo sarà il primo portabandiera olimpico in rappresentanza del ciclismo italiano. Elia Viviani, 32enne veronese di Isola della Scala, si presenterà ai Giochi giapponesi da campione in carica, dopo l’oro nell’omnium ai Giochi di Rio 2016. È considerato uno dei più versatili corridori in circolazione, perché alterna la pista (dove ha conquistato anche 7 titoli europei e 3 podi mondiali) e la strada, che gli ha dato tra l’altro un oro europeo e una maglia tricolore, più 5 tappe del Giro d'Italia (e una maglia ciclamino della classifica a punti), 3 alla Vuelta di Spagna e una al Tour de France. 

Viviani alfiere azzurro ai Giochi con Jessica Rossi: come ci si sente?

«È bellissimo e mi sento lusingato e orgoglioso. L’oro di Rio ha lasciato un segno profondo in tante persone, anche per questo credo che il Coni abbia pensato a me. Sono fiero di essere considerato un atleta guida».

Dunque è stata una scelta con un significato non solo sportivo?

«Penso di sì. Non si tratta di solo di essere portabandiera, è molto di più, tante cose insieme. E sono contento di condividere l’onore con Jessica Rossi, una campionessa. Inoltre sono anche il primo ciclista della storia con questo importante ruolo, malgrado in passato ci siano stati campioni olimpici come Martinello, Lombardi, Bellutti, Pezzo, Bettini...».

Si sente un simbolo, un leader, un testimonial?

«Beh, non esageriamo, però ho la sensazione che da adesso in poi quello che dirò avrà ancora più importanza, arriverà a tutti, anche ai non sportivi. Perché l’Olimpiade non è solo ciclismo, è la vita, è il mondo. Adesso però non devo farmi distrarre e perdere l’obiettivo principale, anzi gli obiettivi, che mi sono prefisso per Tokyo».

Quali sono?

«Prima di tutto sogno il quartetto azzurro oro nell’inseguimento, con o senza di me, perché è una gara che dà il senso del gruppo e dell’unione di intenti. E in quel gruppo ci sarò anch’io, siamo in sei e vedremo chi andrà in pista. I miei compagni mi considerano un po’ il loro fratello maggiore, un ruolo che mi piace molto e mi diverte. Poi farò l’americana insieme con Consonni e l’omnium».

Lei a gennaio ha avuto seri problemi cardiaci: come sta, adesso?

«Molto bene, ma è stato terribile. Mi stavo allenando neache troppo intensamente quando ho sentito il cuore battere a mille e mi è venuto quasi da svenire. Mi sono spaventato, ma sono rientrato lo stesso in bici, poi ho chiamato subito il mio cardiologo, il dottor Roberto Corsetti».

Lo stesso medico che aveva già ai tempi del team Liquigas: e che cosa le ha detto?

«Che alcune cellule del mio cuore, in determinate condizioni, vanno in corto circuito e scatenano impulsi anomali che causano la tachicardia».

Ha avuto paura per la carriera e anche per la sua vita?

«Per la mia vita non ne ho avuto il tempo, anche perché il dottor Corsetti mi ha subito tranquillizzato. Ma ho temuto molto per il mio futuro di corridore ed è stato bruttissimo. Ho pensato: non è come una frattura ossea, che si opera e poi si aggiusta. Per fortuna il cardiologo è stato molto bravo e ha sistemato tutto con un’ablazione cardiaca su quelle cellule che causavano la tachicardia».

Da quel giorno qualcosa è cambiato nella sua vita?

«Beh, ammetto che grazie a quell’episodio ho capito una cosa: ogni giorno può succedere qualcosa che ti stravolge e ti ribalta. Per il resto non credo che ci siano altri strascichi, devo solo evitare di... bere caffé».

Tutto come prima, allora?

«Più o meno sì. Mi hanno solo installato sotto una clavicola un sensore che registra 24 ore su 24 il mio battito cardiaco e può trasmetterlo anche a distanza, per cui sono costantemente monitorato e ogni sera posso fare il punto col mio cardiologo».

Lei quest’anno non ha vinto nemmeno una tappa al Giro e si è sbloccato solo di recente nell’Adriatica Ionica. Dobbiamo preoccuparci?

«No, perché mi sono ristabilito in fretta dai problemi cardiaci e al Giro ero in forma. Ma ci vuole anche fortuna».

Ma come? Lei che è un corridore molto meticoloso e pignolo crede nella fortuna?

«Al cento per cento. Può essere decisiva come il lavoro duro, la programmazione degli allenamenti, la cura dei particolari e, per un velocista come me, anche la compattezza della squadra».

È vero che da ragazzo non si dedicò subito al ciclismo?

«Sì. Avevo fatto nuoto, tennis, pattinaggio e sci, poi con più impegno il calcio, arrivando anche a fare dei provini come portiere con il Chievo e l’Hellas Verona. Un compagno di classe però mi fece conoscere il ciclismo: mi piacque subito perché il risultato dipendeva solo da me».

E nelle categorie giovanili fu scoperto da Paolo Slongo, il mentore di Nibali...

«Giusto. All’inizio il mio idolo era Marco Pantani, uno scalatore, ma quando mi sono scoperto velocista e i miei modelli da imitare sono diventati campioni come Cipollini, Boonen e Petacchi».

Adesso anche lei è un campione: crede che i grandi personaggi dello sport possano o addirittura debbano avere anche un ruolo sociale?

«Lo trovo giustissimo, anche se ci si deve mai sbilanciare troppo in posizioni politiche estreme. Ho ammirato certi atleti professionisti americani, fra i primi a schierarsi contro il razzismo».

Nel ciclismo esiste il razzismo?

«Per fortuna direi di no, forse è uno sport che si salva da certe storture, più frequenti nelle discipline di squadra».

E in Italia com’è la situazione?

«Siamo cresciuti, ma restano ancora manifestazioni di inciviltà che erano piuttosto frequenti in passato, anche nelle discriminazioni tra Nord e Sud, sugli omosessuali o le minoranze etniche».

Non ha mai pensato di darsi un giorno alla politica?

«No, non mi interessa. A me piace fare, non teorizzare».

Che cosa pensa delle donne atlete che rivendicano diritti simili ai colleghi maschi?

«Lo sport femminile va sostenuto e potenziato. Il ciclismo professionistico lo sta già facendo e molte squadre d’élite hanno anche una formazione femminile. Sarebbe bello se tutte le grandi corse fossero precedute da omologhe prove al femminile, come per adesso avviene soltanto in poche prove internazionali».

Lei però è di parte, perché la sua fidanzata Elena Cecchini è un’ottima ciclista: è importante avere una compagna che fa lo stesso sport?

«Io e Elena viviamo a Montecarlo e spesso ci alleniamo insieme. Sto lontano da casa più di 200 giorni all’anno, per questo è fondamentale avere accanto una persona che ti capisca e ti accetti».

Matrimonio dopo i Giochi?

«Magari, ma non è così urgente, tanto è già come se fossimo sposati. Elena per me è importantissima e paradossalmente la pandemia di coronavirus ci ha uniti ancora di più e ci ha fatto capire che siamo fatti l’uno per l’altra. Lei è la parte razionale di noi, sa tenermi sempre calmo e spesso mi organizza anche gli allenamenti e gli appuntamenti della preparazione. Andiamo molto d’accordo».

Prima o poi un figlioletto ciclista?

«Un bimbo sì, ciclista però non ne sono sicuro. Credo che gli consiglierei un altro sport, perché sulla bici si fa troppa fatica e si corrono anche tanti rischi».

A proposito di rischi: come ha vissuto il periodo più delicato del Covid?

«Mi ha fatto riflettere. Personalmente non ho mai temuto per la mia salute, ma per quella dei miei familiari più anziani o comunque a rischio, per mia nonna, i miei genitori. Vedevi gente sparire all’improvviso e per sempre, è stato terribile. Ora finalmente ci siamo potuti vaccinare, ma prima anche per molti di noi corridori è stata dura. Eppure il ciclismo ha dato l’esempio ed è riuscito a disputare tutte le grandi corse tranne la Roubaix. Un bel segnale».

Nel ciclismo per anni c’è stato un altro grande virus: il doping. Crede che finalmente sia stato debellato?

«Direi che andiamo molto, molto meglio, anche se qualche imbecille qua è là c’è ancora in mezzo al gruppo».

Ai Giochi di Londra 2012 lei visse una cocente delusione, a Rio 2016 invece l’esaltazione dell’oro: che cosa succederà a Tokyo?

«Non lo so, ma mi sento cresciuto e maturato per centrare un buon risultato. Sarò emozionatissimo come portabandiera nella cerimonia inaugurale e a volte chiudo gli occhi e mi immagino vicino a Jessica Rossi all’ingresso dello stadio. Ho già i brividi».

Paura? Imbarazzo? O cosa?

«È un’esperienza nuova per me. Ho chiesto consigli a Valentina Vezzali, che ebbe quel ruolo a Londra 2012, e lei da una parte mi ha tranquillizzato, dicendomi che sarà bellissimo, dall’altra però mi ha anche caricato di responsabilità. Comunque mi sento pronto, prontissimo. Andiamo a Tokyo e cerchiamo di far sventolare tante volte quella bandiera sul podio!».

da La Stampa a firma di Giorgio Viberti

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