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DE GENDT, L'UOMO DELLE FUGHE
di Francesca Cazzaniga | 29/12/2019 | 07:40

Johann Sebastian Bach ha composto L’arte della Fuga, Tho­mas De Gendt della fuga ne ha fatto un’arte. È il suo marchio di fabbrica, il suo modo di in­seguire la vittoria, di caratterizzare un’impresa, di lasciare un se­gno. Ma anche di sfuggire agli stereotipi, di scrivere pagine di storia, di vivere l’avventura e di volare via, lontano.

L’uomo delle fughe è nato a Sint-Ni­klass, nel cuore delle Fiandre, il 6 no­vembre 1986 e pedala nel gruppo dei prof dal 2009: Topsport Vlaanderen Vacan­soleil-DCM, Omega Pharma e Lotto Soudal le sue squadre, sedici le sue vittorie (quest’anno la prima tappa della Volta a Catalunya e l’ottava del Tour de France).

Lo raggiungiamo a vacanze terminate, pronto a salire in sella per una nuova stagione da vivere in fuga.
Thomas, come ha iniziato ad andare in bici?
«Sono passati tanti anni ma il ri­cordo è impresso nella mia mente. Ho iniziato grazie a mio fratello Jur­gen, che ha 11 anni più di me e faceva ci­clocross. Mi piaceva molto guardare le corse, così ho deciso di provare ad usare un po’ la bici come passatempo, nel giardino di casa nostra. A 10 anni ho iniziato a fa­re qualche piccola gara in Olanda: è stato subito un grande amore e così ho deciso di non lasciare mai più la mia bicicletta. Non rinnego niente, anzi ri­farei tutte le scelte che ho fatto».

Qual è stata la sua prima corsa importante?
«L’Amstel Gold Race nel 2009 con la maglia della Topsport Vlaan­deren-Mer­cator, formazione Professio­nal fiamminga. Che ricordi, solo a pensarci mi vengono ancora i brividi».

E la prima vittoria nella massima categoria?
«Dopo due anni tra i “grandi”, è stata la prima tappa della Parigi-Nizza nel 2011. La prima vittoria da professionista è come il primo amore, quello che non si scorda mai». 

Nel 2019 è stato l’unico corridore a di­sputare e a concludere i tre Grandi Giri. Com’è stata questa esperienza? Ha intenzione di ripeterla?
«Ho fatto bene al Giro d’Italia, ottenendo buoni risultati come il terzo nel­la cronometro finale a Verona. Al Tour sono riuscito a fare ancora me­glio vincendo l’ottava tappa a Saint Etienne e piazzandomi terzo nella cro­no di Pau. Nella tappa che ho vinto, ho staccato Alessandro De Marchi in salita e sono andato a tutta: il gruppo era sempre più vicino, ero consapevole di avere pochi secondi di vantaggio ma non ho mollato e ci ho sempre creduto. Alla fine è stata una grande gioia per me e per la mia squadra, la Lotto-Sou­dal. Anche alla Vuelta non sono andato ma­le, anche se ho iniziato ad accusare la fatica dei due grandi giri precedenti. Se durante il Tour de France potevo attaccare quattro, cinque, sei volte e re­cuperare dieci minuti dopo, alla Vuelta è stato differente: attaccavo solo due o tre volte e avevo bisogno di molto più tempo per recuperare. È stato bellissimo fare tutti e tre i Grandi Giri in un anno, ma che fatica! Ad oggi sinceramente non so ancora se ripeterò il programma della stagione appena conclusa. Per l’anno prossimo l’idea è quella di disputare Giro d’Italia e Tour de Fran­ce, successivamente insieme al team valuterò se fare anche la Vuel­ta, molto dipenderà dalla mia condizione e non bisogna dimenticare che siamo nell’anno olimpico. Alla luce dei risultati ottenuti, un pensiero alla cro­no dei Giochi lo faccio».

Qual è la sua giornata tipo durante i grandi giri?
«Sono metodico, faccio sempre le stesse cose: mi alzo, faccio colazione, bevo il caffè, vado al bus, meeting pre-partenza, indosso i vestiti da corsa, firmo, vado alla partenza, parto, soffro e arrivo, doccia sul bus, torno in hotel con il bus, riposo in camera, ceno, riposo in ca­mera e dor­mo. Un ro­bot forse, è me­no metodico di me...».

Tre grandi giri a tutta: ma cosa fa nel giorno di riposo?
«Che belli i giorni di riposo! Faccio il meno possibile... Se non piove vado in bicicletta un’oretta per mantenere le sensazioni, poi però cerco di muovermi il meno possibile per tutto il giorno. Sto a letto, guardo film e ascolto musica. Il giorno di riposo lo prendo proprio alla lettera». 

Torniamo al trionfo di Saint Etienne. Cos’ha pensato quando hai alzato le braccia al cielo?
«A dir la verità non ho pensato molto. Negli ultimi 500 metri l’unica preoccupazione era “Spero che non mi rag­giun­gano, non possono raggiungermi” e in un attimo mi sono trovato al traguardo».

Quanto ha corso quest’anno?
«Tanto, troppo Nel 2019 ho accumulato ben 91 giorni di corsa: è stata una stagione mol­to intensa. Ma sono bastati pochi giorni di riposo per ricaricare le batterie e ritrovare la voglia di tornare in sella alla mia bicicletta».

Ha un fan club in Belgio?
«No, non ce l’ho. È strano vero?».

Però lei è famoso anche per il modo di raccontarsi sui social network…
«Mi piace raccontare quello che penso e i miei follower apprezzano quello che dico. Mi diverte anche giocare ogni tan­to. Ci sono troppi corridori che postano sui loro social network solo quello che viene detto loro dall’addetto stampa. A me piace postare di mia spontanea volontà, chiaramente tenendo in considerazione il mio essere un personaggio pubblico e il mio ruolo in seno ad un team professionistico».

Quale genere di musica ascolta prima delle gare?
«Rock, hard rock e heavy metel. Mi dan­no una forte carica, servono anche a svegliarmi. A volte sono meglio del caffè…».

Qual è la sua corsa preferita?
«Il Tour Down Under in Australia. È la prima corsa della stagione, si respira un’atmosfera piacevole e rilassata e poi, oltre ad essere una corsa, è anche una piccola vacanza».

Come programma le sue fughe?
«Non le programmo. Non mi piace fa­re programmi, vivo il momento. Quello che faccio è solo provare a staccarmi dal gruppo e andare in fuga quando non ho altri compiti importanti da svolgere per la squadra. Una volta fatto questo, che non è poi così facile come può sembrare, le gambe e le sensazioni decidono se posso giocarmi la vittoria. Il mio punto di forza sono le tappe troppo dure per i velocisti e troppo facili per quei corridori che curano la classifica. Sono strano… lo so».

Come si vive nel team Lotto Soudal?
«Siamo un team a cui piace molto at­taccare e che prova ad essere aggressivo nel modo di correre. Tra di noi sia­mo amici: è molto importante avere un buon rapporto con i compagni di squadra, visto che passiamo molto tem­po insieme. Penso alla squadra come ad una seconda famiglia, quindi sentirsi bene è fondamentale».

Per tutti lei è diventato l’uomo delle fughe.
«È il mio marchio di fabbrica. L’andare in fuga rappresenta per me il solo mo­do per poter vincere una corsa. Appena posso scatto, anche se bisogna essere un po’ pazzi per attaccare così tanto come faccio io, perché si fa una gran fatica. Ma qualche volta la pazzia viene ripagata e riesco a vincere qualche tappa».

I grandi atleti im­parano molto dal­le lo­ro sconfitte: è capitato an­che a lei?
«Fa parte della vita avere degli alti e bassi, è normale che sia così. A me è successo spesso di non arrivare al risultato. Nel 2018 ho corso novanta giorni e ho calcolato che in tren­taquattro di questi potevo fare la corsa. Sono andato in fuga ventisei volte e ho vinto solo in due occasioni. Fallisci il 94% delle volte, ma l’importante è non demoralizzarsi mai. Io ho sempre cercato di analizzare le situazioni e di capire come e dove po­tevo migliorare, per cercare di ab­bas­sare un po’ la mia percentuale di fallimento».

Secondo lei come cambierà il ciclismo nei prossimi anni?
«È già cambiato tanto rispetto ad anni fa, sta andando tutto più veloce. Io, per esempio, ogni anno mi alleno in modo sempre più duro e professionale solo per essere in grado di poter vincere. Una volta c’erano corridori fuoriclasse, i veramente bravi, quelli bravi, quelli mediocri e i corridori più scarsi­, quelli de­boli. Adesso non ci sono più atleti mediocri, il livello si è alzato tantissimo. Tutto questo è un bene per il mo­vi­mento ciclistico internazionale, ne sono sicuro».

Su Twitter qualche mese fa ha lanciato una provocazione: «Tutti i ciclisti possono firmare questa petizione per negare a Ma­thieu Van der Poel, Wout Van Aert e Rem­co Evenepol la possibilità di partecipare alle corse su strada per i prossimi quattro anni. Grazie». Cosa pensa del ricambio generazionale che sta investendo il gruppo?
«Ci sono tanti giovani talenti, sono troppo forti. E l’anno prossimo ce ne saranno ancora di più. Aiuto!».

Quali sono i suoi programmi per la prossima stagione?
«Ho parlato pochi giorni fa con il mio preparatore Paul Vandenbosch e ad oggi penso - ma non ho ancora la certezza - che questo sia il mio programam di massima: Tour Down Under, Parigi-Nizza, Volta a Catalunya, Giro dei Paesi Baschi, Giro d’Italia e Tour de France. Ma ne parlerò in ritiro con la squadra, ovviamente».

Il 2020 è l’anno olimpico: ne ha parlato con il selezionatore bel­ga Rik Verbrugghe?
«Sì, valuteremo insieme strada facendo. L’Olim­pia­de è una cor­sa che mi manca, penso possa essere una grandissima esperienza».

Dopo il Giro di Lombardia 2018, lei e Tim Wellens siete tornati a casa in bici. E quest’anno vi siete ripetuti raggiungendo Teruel e la “Lapponia di Spa­gna” in sella ad una gravel. Come è nata questa idea?
«Volevamo fare qualcosa di diverso con la bici. Avevamo bisogno di uscire dagli schemi della solita routine del corridore professionista. Ci alleniamo sempre oppure siamo alle corse con degli obiettivi ben precisi, come giusto che sia. È un’idea nata così, un po’ per caso: una nuova esperienza, quella di pedalare solo da un hotel all’altro sen­za pensieri e preoccupazioni. Senza fughe, anche se mi piacciono molto. Tim ed io, come tutti i corridori del resto, durante la stagione non abbiamo mai tempo per poter improvvisare un viaggio in bicicletta. Ci siamo goduti la natura, il mondo attorno a noi, co­sa impossibile durante le corse».

Come vede il suo futuro?
«Vorrei correre ancora per qualche an­no perché penso di poter dare ancora tanto a questo sport. Quando deciderò, spero il più tardi possibile, di appendere la bicicletta al chiodo tutte le opzioni saranno aperte. Chissà cosa mi riserverà il futuro…».

È sposato? Ha figli?
«Sono sposato da 7 anni con Evelyn e abbiamo due figli, Timo di cinque an­ni e Amber di quattro».

Cosa fa nel tuo tempo libero?
«Sto con loro per quanto possibile. E poi gioco molto, soprattutto con la ps4, quando ho un po’ di tempo, ovvero quasi mai...».

È superstizioso?
«No. In realtà seguo un ordine ben preciso per fare le cose prima di correre ma è una scelta figlia della necessità: sono sbadato e lo faccio per ricordarmi tutto quello che devo fare».

Cosa le ha insegnato la bicicletta?
«Che non bisogna mollare mai, perché la vista migliore arriva sempre dopo le salite più dure. Il ciclismo è una grande palestra di vita».

Tre parole per descrivere la bicicletta.
«Libertà, disciplina, sofferenza».

Quale consiglio vorrebbe dare ai giovani?
«Divertitevi e amate la bicicletta. Giocate il più possibile fino a quando non avrete bisogno di fare sul serio con gli al­lenamenti, poi sì che sono cavoli amari…».

Ha un sogno nel cassetto?
«Ho realizzato tutti i miei sogni nel ci­clismo. L’ultimo era quello di riuscire a finire tutti e tre i Grandi Giri in un anno… e ce l’ho fatta».

Chi vuole ringraziare?
«Mi piacerebbe dire grazie a tutte le per­sone che ho incontrato e che hanno avuto un ruolo nella mia lunga e bellissima carriera. Sì, tutte, perché anche le brutte esperienze hanno fatto sì che io diventassi quello che sono oggi. Un uo­mo diverso».

da tuttoBICI di dicembre

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