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GATTI&MISFATTI. CICLO CONTINUO
di Cristiano Gatti | 12/10/2019 | 18:09

E va bene, per noi italiani è il peggior Lombardia di sempre, in un’annata che non è la peggiore solo grazie al magnifico Bettiol delle Fiandre. E va bene, è una giornata di foglie morte e di pensieri funesti, eppure a me viene lo sbocco istintivo di una dichiarazione entusiastica. E doverosa, oltre tutto. Provo a spiegarmi, partendo dal prima.

Non facciamo finta di dimenticare: siamo andati avanti per anni con la lagna (sacrosanta, sia inteso) di questo ciclismo moderno, così sofisticato e così specializzato da arrivare al punto estremo di corridori impegnati al massimo un mese all’anno.

Se ricordo male sono pronto a rimangiarmi tutto in un boccone, ma io ricordo un ciclismo diviso in dipartimenti, tutti rigidamente distinti per calendario e membri iscritti. Il dipartimento Sanremo, con la concessione scopo preparazione della Tirreno-Adriatico o della Parigi-Nizza. Quindi il dipartimento classiche del Nord, diviso a sua volta in due sottodipartmenti, quello per il pavéé (Fiandre, Roubaix) e quello per l’asfalto (Freccia Vallone, Liegi, Amstel). Quindi il dipartimento Giro, tutto diverso dal dipartimento Tour, con la possibilità di qualche recupero per ragioni personali nel dipartimento Vuelta. Infine, dopo il mondiale più o meno aperto a tutti, il povero dipartimento Lombardia, semivuoto, con un sacco di posti liberi, tra la desolazione delle foglie secche e dei certificati medici per comunicare l’assenza, spiacentissimo, ma proprio non ce la faccio più, sono già davanti al camino in pantofole.

Ogni dipartimento, le sue facce e la sua tipologia di atleta. Con i tecnici tutti in coro a spiegare che ormai è così, questa si chiama evoluzione, si andrà sempre più verso la superspecializzazione, con la sinistra possibilità di arrivare nel giro di poche stagioni al supercorridore che corre soltanto una supercorsa all’anno.

Paradossi a parte, questo era l’andazzo. E a questo ci stavamo tutti rassegnando, a testa bassa. Poi, alle volte, succede che la storia prenda svincoli e viadotti laterali, senza curarsi delle scelte e delle teorie umane, lanciate a folle velocità sui comodi drittoni del conformismo rassegnato.

Dunque: lentamente, a singhiozzo, con qualche musata, qualche valoroso ribelle si avventura fuori dal proprio dipartimento, comincia ad annusare l’aria che tira in un altro e in un altro ancora. Dopo i primi pionieri, altri seguaci ci provano, affascinati da un’idea antica, quasi primordiale: correre è bello, correre tanto e ovunque non è impossibile, per sé e più ancora per il pubblico dei tifosi.

In queste ultimissime stagioni, il mondo si ripresenta così completamente ribaltato. I dipartimenti non hanno più muri invalicabili capaci di trattenere dentro la gente, un sacco di corridori vaga e saltella dall’uno all’altro senza sentirsi più legato al ruolo e allo scopo. Si corre, si corre, si corre.

Ed eccolo qui il risultato più bello. Ed eccola qui la mia entusiastica dichiarazione di gratitudine: per quanto sia il Lombardia più nero per noi italiani, è un Lombardia sempre più e sempre meglio frequentato dai campioni contemporanei, alla faccia dei dipartimenti. Mollema è il vincitore, ed è lo stesso Mollema che ha corso il Giro e pure il Tour. Non è un sosia, non è suo fratello gemello: è proprio quello. Cioè un encomiabile professionista che onora la sua maglia e il suo mestiere sfacchinando lungo l’intero arco della stagione. E se qualcuno mi vuole dire che non ha corso la Vuelta, si faccia avanti lui a dargli dello sfaticato.

Alle spalle, gli altri: li vedo sfilare sul lungolago di Como e sono proprio le stesse facce che ho visto tutto l’anno. Valverde, proprio Valverde, quello della classiche di primavera, quello del Tour e quello stupendo (magari soltanto un po’ pollo) di questo Lombardia. E Bernal, il nuovissimo che avanza: presentissimo e vincitore alla Parigi-Nizza, poi al Giro di Svizzera, poi al Delfinato, poi al Tour, poi al Gran Piemonte, infine sul podio qui a Como, nei giorni delle caldarroste.

Sfila Roglic, dominatore di primavera, bravo e un po’ somaro al Giro, poi dominatore assoluto alla Vuelta, prima di questo filotto tardo-autunnale sulle strade d’Italia, rovinato da un po’ di confusione mentale proprio nel Lombardia, dove peraltro hanno corso tutti per farlo perdere (copyright direttore Stagi). E ovviamente c’è pure Nibali, uno dei primissimi a far saltare i muri e la logica dei dipartimenti, e pazienza se questo finale non è esattamente indimenticabile: correndo sempre e ovunque, può succedere di arrivare con la lingua di fuori.

Non c’è altro da dire. Nel giorno della depressione nazionale, del nostro Lombardia peggiore di sempre, bisogna comunque esultare. Non è una ricorrenza da niente. Il ciclismo è tornato. Si ricolloca là dove deve stare: nel cuore della gente, dalla primavera all’autunno, sempre con le stesse facce e con gli stessi nomi. Del ciclismo part-time, a singhiozzo, a giorni alterni, nessuno parla neppure più. E soprattutto, di quel ciclismo algido e ruffiano, nessuno sente più la mancanza. 

 

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