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GIOVANNI ELLENA, IL DIESSE CHE NON AMA LA RIBALTA
di Giulia De Maio | 28/12/2018 | 07:47

«Il ciclismo italiano è proprio ridotto male, se premia un povero pirla come me». Gio­vanni Ellena non è uo­mo abituato a stare sotto i riflettori, è il classico faticatore dietro le quinte, fondamentale per tirare avanti la baracca, che non si prende quasi mai la ribalta.

Stavolta il diesse della Androni Gio­cattoli Sidermec la ribalta se l’è presa alla Notte degli Oscar tuttoBICI quando è stato premiato come migliore direttore sportivo del 2018 e, considerata la sua grande mo­destia, per superare l’im­barazzo l’ha buttata sul ridere.

Il tecnico torinese ha vinto il Gran Premio GR Grafiche avendo la meglio su Davide Bramati della Quick Step Floors e Vittorio Algeri, diesse della Mitchelton Scott. Discrezione, competenza, senso tattico, capacità organizzativa, passione: sono queste le qualità del canavesano, classe 1966, riconosciuto dai lettori di tuttobiciweb.it e da una giuria tecnica - composta da giornalisti e addetti ai lavori - come il nu­mero uno in ammiraglia della stagione. Decisivi gli oltre 30 successi ottenuti dalla formazione con a capo Gianni Savio, il secondo importantissimo trionfo consecutivo nella Ciclismo Cup e l’aver portato al World Tour ta­lenti come Sosa e Ballerini.

E pensare che tutto è iniziato per caso...
«Già. A Pertusio, il mio paese, quando iniziavo a frequentare l’Istituto di Ra­gioneria è stata creata una società di cicloturismo, la Pertusiese. Il ritrovo degli iscritti era alla fermata del pullman che prendevo per andare a scuola, il sabato mattina ho iniziato a vedere gente riunirsi in bici e a interessarmi a questo mondo. La prima bici mi fu re­ga­lata alla fine della terza media dai miei genitori, Giuseppe (per tutti Pi­no) e Consolata. Era gialla, di ferraccia, ma la portavo in camera e la trattavo come fosse la mia fidanzata. In fa­miglia nessuno era appassionato di ci­clismo, si racconta che il nonno an­das­se in bici a vedere le tappe del Gi­ro, ma non so se sia verità o leggenda. Pur­troppo è morto investito mentre era in sella alla sua bici da campagna quando avevo solo 4 anni. Negli anni Settanta la bici ti permetteva di uscire dal paesino, era un mezzo di evasione fantastico. Cavoli, mi sembra di parlare della preistoria...».

Con la maglia della Pertusiese pedali an­cora oggi.
«Me ne sono fatta fare di recente una che ricorda quella di lana di un tempo, ma per uscire quanto vorrei mi manca il tempo. Pedalo in media una volta a settimana. Ogni tanto passo anche da quella fermata del bus e penso a come sarebbe stata la mia vita dal punto di vista lavorativo se non fosse nata quella squadra. Da ragazzino ho praticato calcio, come tutti, ma ero imbranato, poi karate, nuoto... ma niente mi è entrato dentro come la bici».

Che corridore eri?
«Un pellegrino (ride, ndr). Ho corso fino alla categoria dilettanti, ho vinto qualche corsa, ma era un’epoca diversa. Tenevo bene sugli strappi e in volata ero in grado di dire la mia, ma non avevo recupero. Ho gareggiato fino a 27 anni. Ero pagato e avrei potuto an­cora fare qualcosa di buono, ma ho de­ciso di smettere perché mi ero reso conto di non poter diventare professionista. Un giorno andai a fare un colloquio in un’azienda che vendeva olio d’oliva porta a porta, il capo del personale mi chiese che lavoro svolgessi, dopo di che mi disse: “Se fai il ciclista vuol dire che hai le p…e di bronzo, quindi fai al caso nostro. Inizi domani”. Io risposi che non potevo perché dopo pochi giorni avevo da correre il Piccolo Giro di Lombardia. Fu la mia ultima corsa, una settimana dopo iniziai a lavorare. Per otto anni ho fatto l’agente di commercio, ho imparato un mestiere, sbattendomi un sacco e girando tutto il Nord Italia».

La bici in tutto ciò dove era rimasta?
«Smesso di correre, non volevo più ve­derla. A fine anno però Rocco Marche­giano (oggi vicepresidente FCI, ndr) mi ha chiesto di dargli una mano con gli allievi della Borgonuovo di Colle­gno e... ci sono cascato. Ho ripreso a uscire in bici con loro, ho iniziato a se­guirli alle corse. Lavoravo a Bergamo a quei tempi, lì ho frequentato il corso da diesse di 1° livello e poi gli altri. La squadra intanto è cresciuta, i ragazzi che seguivo sono diventati juniores, poi ho seguito gli Under 23 con Sub­brero alla Overall, gli juniores della Val­li Orco e Soana, dove arriverà il Giro l’anno prossimo, quindi ho trascorso un anno alla Roeder, quindi alla Brunero e infine alla Viris. Intanto nel 2002 ho smesso di vendere olio e ho iniziato a fare il rappresentante nel settore bici e componenti. Nel 2005 l’azienda per cui lavoravo è andata in cri­si, volevo cambiare aria ma non settore. Un giorno incontrai per caso Marco Bellini, mio compagno di squadra quando correvo alla Brunero, che già lavorava con Gianni. Mi chiese se volevo dargli una mano. Risposi di no perché non pensavo di essere in grado di farlo, ma insistette. Nel 2006 ho iniziato come collaboratore a gettone del team: avevamo stabilito che avrei lavorato 40 giorni, alla fine furono 120».

Allora eri in grado di stare in ammiraglia.
«A quanto pare sì. Mi è sempre piaciuto studiare, negli ultimi tre anni da corridore non avevo a disposizione internet né tante pubblicazioni sul ciclismo, ma lessi tutti i libri che trovai sul­la preparazione nel nuoto e nell’atletica. Cer­cavo di imparare il più possibile e già allora stilavo io le tabelle di allenamento per me e i miei compagni. Lì è nata la mia passione. Bellini mi ha insegnato molto dal punto di vista tecnico, Sa­vio la gestione manageriale. Mi sono sempre ispirato a Roberto Da­miani, abbiamo avuto un percorso si­mi­le, an­che lui non arriva dal professionismo ma dal dilettantismo, ci sentiamo spesso. Ammiro molto tecnici come Guer­cilena, a livello culturale nettamente superiori alla media. Per me Luca è un esempio, anche se è più giovane di me. Per la signorilità, un modello indiscusso per chiunque faccia il mio mestiere è Alfredo Martini. Ri­cor­do che ai corsi di aggiornamento della Adispro quando parlava lui c’era un silenzio assoluto, non volava una mosca. Aveva un carisma fuori dal co­mune ed è sempre stato corretto con tutti, per questo non si poteva che ri­spettarlo. A ripensare ai suoi discorsi mi vengono ancora oggi i brividi».

Cosa rappresenta per te questo premio?
«I tecnici bravi bravi sono altri, comunque sono lusingato. È il riconoscimento al lavoro fatto da me e dai miei colleghi Giampaolo Cheula e Alessandro Spezialetti, con umiltà e senza presunzione. Vi avrei ringraziato già solo per aver proposto il mio nome tra i candidati, sono quasi in imbarazzo per averlo vinto. Lo devo condividere con tutta la squadra e con le mie donne. Mia mo­glie Manuela e le nostre figlie, Giulia di 17 anni ed Elisa di 21. A fine ottobre siamo stati quattro giorni in vacanza a Napoli, per il resto siamo stati tranquilli a casa. Ho letto un po’ di libri di medicina sportiva che mi ha passato il dottor Giorgi, mi sono dilettato con il giardinaggio e il bricolage. Le ragazze sono abituate al mio lavoro, che mi por­ta a stare via molto, mia moglie lo sopporta, lo benedice e maledice a mo­menti. Io devo solo dirle grazie perché se ho un così bel rapporto con le mie figlie e abbiamo una famiglia unita e felice è merito suo. Avere al fianco una persona che ti capisce e ti sostiene è una vera fortuna».

Quali sono le emozioni più forti che hai vissuto in ammiraglia fino ad oggi?
«Detto che mi piace pensare al domani più che guardare indietro, sono convinto che se ti “siedi” è finita, tutto quello che ottieni con i tuoi atleti è al 99% merito loro. Mi ha lasciato incredulo la vittoria alla Freccia Vallone 2009 di Davide Rebellin. Ricordo come fosse ieri il momento in cui eravamo fermi sul muro di Huy, non sapevamo nulla dell’andamento della corsa perché la radio non funzionava, e vidi sventolare una bandiera italiana. Dissi: “Gianni, abbiamo vinto”. Non è possibile fece lui. E invece ce l’avevamo fat­ta. Non scorderò mai anche il successo al Campionato Italiano 2012 di Franco Pellizotti. E poi ho mille pensieri legati a Scarponi, soprattutto al 2008, quando ritornò a correre dopo la squalifica, con le sue paure e i suoi dubbi. Dal di fuori Michele era un ra­gazzo brillante, ma quando si chiudeva in se stesso era come tutti i comici: triste, o meglio af­flitto da tanti pensieri. Ave­va paura del giudizio altrui. Ri­cordo lunghe chiacchierate e confidenze, ma permettetemi di tenerle per me».

Il corridore che ti ha regalato più soddisfazioni?
«Alessandro De Marchi. Mi ricordo la prima volta che lo vidi all’aeroporto di Bruxelles, seduto sulla valigia. “Questo dove crede di andare?” pensai. Alla sua prima gara tra i professionisti gli dissi di andare in fuga, consapevole che non sarebbe stato facile. Lui non solo ci riu­scì, ma quasi arriva al traguardo sen­za farsi riprendere. Lo acchiapparono a cinque chilometri dal traguardo. Il Ros­so di Buja è stato riconoscente come pochi, anche ora che ha trovato la sua strada si ricorda da dove e con chi ha iniziato il suo percorso nella massima categoria. Sono legato anche a Fabio Felline, per il quale ho lottato per inserirlo in squadra dopo il fallimento della Geox, così come a Diego Rosa. Sarà che sono entrambi piemontesi, più vicini a casa e li vedi spesso. Ho visto crescere Egan Bernal e Ivan Sosa, che nella mia terra hanno trovato una seconda casa. Quest’ulti­mo purtroppo sta dimostrando di essere troppo giovane per prendere certe decisioni per la sua carriera...».

L’aspetto più difficile e appagante di questo lavoro?
«Spesso ti impone di dover andare contro qualcuno, di prendere una posizione antipatica, ma va fatto. Hai a che fare con quaranta persone tra corridori e staff, devi pensare al gruppo e non al singolo, vai avanti e speri che un giorno possano capirti. Da dilettante a un ragazzo dissi: “Questo non è il tuo la­voro”. Per due anni non mi ha rivolto la parola, ora monta caldaie ed è stato pochi giorni fa anche a sistemare la mia. Ab­biamo un bel rapporto, ha capito che non volevo che perdesse tempo. Quello che mi motiva è vedere che tutto funziona e che non ci sono problemi o, per lo meno, che sono ridotti al minimo».

Da dove inizierà il tuo 2019?
«In realtà è già iniziato. Siamo stati tre giorni in ritiro ad ottobre per stilare i programmi e dal 10 al 21 dicembre abbiamo lavorato a Benidorm per i primi allenamenti tutti insieme al caldo. L’anno nuo­vo comincerà come d’abitudine tra Argentina e Tachira. L’obiettivo è continuare a far crescere giovani interessanti».

Cosa si augura per il futuro il “diesse dell’anno”?
«Vorrei rilanciare il movimento in Pie­monte. Sogno che la miccia che han­no acceso a Buasca Bernal, Sosa e gli altri promettenti sudamericani, non si spenga. Do qualche consiglio agli under 23 che corrono in zona, sono tre anni che non manco al Tour de l’Avenir e ad altre corse dilettantistiche italiane. Mi piacerebbe diventare il trait d’union tra prof e dilettanti, ma è difficile. Per il ci­clismo mi auguro che qualche grande azienda decida di investire nel no­stro sport, un veicolo pubblicitario senza uguali, così che si riesca ad allestire una squadra World Tour in Italia. Chia­ramente non è detto che ci debba lavorare io...».

da tuttoBICI di dicembre

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