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L'ORA DEL PASTO. LA PATENTE DI MICHELE
di Marco Pastonesi | 17/08/2021 | 07:50

Si chiamava “il Club dei poveri”. La sede a Brescia nella bottega di un ciclista, i frequentatori una ventina, i corridori da sostenere tre, ovviamente bresciani: Mario Anni, Davide Boifava e Michele Dancelli. “Il Club dei poveri” si mobilitava per allenamenti e corse, per rifornimenti e cene, per aperitivi e cicchetti, per scommesse e trasferte. In una sola occasione il proprietario della bottega, Pietro Serena, ammiratissimo perché saldava i telai senza ricorrere alle bombole – come Enzo Maiorca nelle immersioni, come Reinhold Messner nelle ascensioni -, partecipò alla scampagnata. Era la Milano-Sanremo 1970. Quella di Dancelli. Chissà che cosa sarebbe stato della carriera di Dancelli se Serena ci avesse preso gusto. Invece, quella fu la prima e unica volta, amen.

Dancelli. La meglio gioventù. Da qualche mese, pare incredibile, 79 anni. Settimo di sette figli (ottavo di otto contando un fratellino morto in fasce), orfano di padre (morì di polmonite quando Michele aveva un anno), il pronti-via a Castenedolo fra castagni e viti, furti ed eroismi: nel 1943 le campane di bronzo della parrocchia erano state smontate dai tedeschi per finire in fonderia, la notte seguente furono riportate in paese e nascoste fino alla fine della guerra. Muratore a 14 anni, la prima bici – una Condor azzurra – per andare e tornare dal lavoro, 10 ore di lavoro poi ad allenarsi fino a notte fonda, la prima corsa a 16 anni, il primo Giro d’Italia – da spettatore – a 14 anni, “udii il clacson della carovana, abbandonai in fretta e furia per qualche minuto cazzuola e carriola per correre a bordo strada”, la prima vittoria a 19 anni nei campionati italiani Csi. E da subito, da sempre, quel modo di correre impulsivo, istintivo, anarchico, da attaccante, che ci avrebbe fatto innamorare di lui.

Paolo Venturini ha scritto “Michele Dancelli – L’asso di fiori” (Compagnia della stampa Massetti Rodella Edizioni, 256 pagine, 20 euro, prefazione di Ernesto Colnago), la storia e le storie di 12 anni di professionismo (dal 1963 al 1974), 73 vittorie, maglie rosa, tricolori e azzurre, con due bronzi mondiali. Poteva vincerle, e le ha vinte, in tutti i modi: in volata e in fuga, in salita e in discesa, in linea e a tappe, in classiche e in circuiti. Era una mina vagante, un terno al lotto, un asso nella manica. Era un jolly, un garibaldino, un campione. Era Giamburrasca.

Era anche una testa matta. Su e giù dalla bici. 1966, sgambata nell’entroterra ligure, lui e Gianni Motta, un locale con la musica, una bionda che ci sta, con tutti e due: “Felici per quell’incontro intimo inatteso, ci congediamo da lei con la promessa di rivederci magari quanto prima. Facciamo per allontanarci, quando ci ferma un ragazzo del paese che ha osservato la scena. ‘Voi due siete matti ad andare con quella ragazza, state attenti, perché è malata’”. Finisce che Michele e Gianni corrono in albergo “a fare gargarismi e disinfezioni della bocca con l’alcol denaturato”.

L’imprevedibilità di Dancelli, in corsa e fuori corsa, era diventata prevedibile e proverbiale. Riuscì addirittura a dimenticarsi di una promessa al papa. Era Paolo VI. Accadde in una udienza privata nel 1968. Giovan Battista Montini, bresciano, chiese a Dancelli un favore: “Lei che gira spesso per la provincia di Brescia in bicicletta, quando passa dalle parti di Pezzoro, in Valtrompia, porti i miei cari saluti alla locanda Dancelli dove mi recavo talvolta da ragazzo, durante l’estate, con mio padre quando da San Vigilio risalivamo la valle per andare sul Monte Guglielmo”. Giamburrasca lo fece fuori tempo massimo, 30 anni più tardi, complice un pranzo a base di spiedo tradizionale.

“Se avessi avuto le tue gambe”, gli dice sempre Vittorio Adorni sospirando. Era fatto così, Dancelli. Quella volta in Belgio, per la Parigi-Lussemburgo, Salvarani e Molteni nello stesso albergo, ma mentre Felice Gimondi e i suoi gregari si tenevano a stecchetto, Michele e i suoi compagni andavano fuori a cena per un coniglio arrosto. Risultato: la Molteni sfiorò la vittoria e la Salvarani finì ultima. “Un anno Gimondi mi offrì un bell’ingaggio per seguirlo alla sua corte, ma memore di quella serata in Belgio, cortesemente rifiutai”. Erano altre le lezioni: quella volta che Jacques Anquetil gli pulì la bicicletta perché Dancelli, caduto, si era sfregiato le mani, e quella volta che Eddy Merckx andò a riprendere chi era andato in fuga approfittando di una caduta nel gruppo e poi, non soddisfatto, continuò l’attacco tirandogli il collo.

“Il Club dei poveri” faceva bene a sostenere Dancelli. E trovò giornalisti ispirati. Bruno Raschi, “il Divino”, ne ritrasse “il viso esangue illuminato dalla rabbia; il cappellino buttato in un campo di garofani quando era diventato un cencio di sudore; i muscoli delle gambe asciutte, scolpiti dallo sforzo come quelli di un Donatello; le sue lacrime, lente, quasi a scandire pedalate di gloria”. Gian Paolo Ormezzano lo musicò in “din, don, Dan...celli”. Gianni Mura lo definì “un sognatore nomade”. Gino Sala lo elesse “ribelle”. “Adesso i critici mi daranno la patente di campione?”, domandò Dancelli sul podio di quella Milano-Sanremo 1970. Eccola qua, Michele.

 

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