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BIG MADS. VIAGGIO NEL MONDO DI PEDERSEN
di Giulia De Maio | 30/11/2019 | 07:24

È diventato un campione perchè non sa perdere. Ad Har­rogate lo scorso 29 settembre Mads Pedersen si è laureato corridore numero 1 al mondo al termine di una prova tanto spettacolare quanto estrema.

«Un vero campione si gioca sempre il tutto per tutto, un perdente trova sempre una scusa» è il suo motto, a cui ha fatto fede mettendosi al collo la medaglia d’oro, anche se nemmeno lui pensava di poter ambire a tanto. A soli 23 anni ha sbaragliato la concorrenza an­dando a indossare quella maglia arcobaleno che farà girare gli zebedei al nostro Trentin ogni volta che la incrocerà alle corse.

«Scusate se ho avuto la meglio su uno dei vostri, spero comunque di piacervi. Ero convinto al cento per cento che in quella volata Matteo mi avrebbe battuto, sono felice della mia vittoria e ancora più orgoglioso perché sono riuscito ad ottenerla battendo uno dei corridori migliori in circolazione, uno di quelli che ammiro di più. Non me ne vogliate» esordisce quando lo incontriamo all’inaugurazione della nuova sede di Trek Italia e gli confidiamo di averlo mandato a quel paese mentre tagliava il traguardo a braccia alzate davanti a una maglia azzurra.
Prima del finale di stagione, nel nostro Paese c’era già stato da bambino in va­canza con i genitori e per tante gare, compresi due Giri d’Italia. Sulle strade di casa nostra ha indossato la nuova divisa iridata alla Tre Valli Varesine e chiuso la stagione alla Milano-Torino.

«Il pubblico italiano mi ha trattato be­nissimo, purtroppo dopo il mondiale mi sono ammalato quindi non ho potuto far vedere grandi cose con la maglia iridata. Del vostro Paese mi piace tutto, compreso il cibo e il vostro stile di vita rilassato» prosegue senza ruffianeria il talento di Lejre, che il 18 dicembre spegnerà 24 candeline.

Nelle categorie minori si era già fatto notare, ancora una volta nel nostro bel Paese. Nel 2013, da juniores, dopo aver vinto la Parigi-Roubaix conquistò l’argento a Firenze nella prova in linea dietro a quel fenomeno di Mathieu Van der Poel. Nello Yorkshire Mads ha sorpreso perfino se stesso, ma il suo talento a ben vedere era annunciato. Da U­n­der 23 ha vinto la Gand-Wevel­gem, il Giro di Norvegia (dove venne notato da Luca Guercilena e dai suoi uomini della Trek Segafredo) e una tappa del Tour de l’Avenir. Poi la stagione scorsa, al secondo anno da prof, ha ottenuto un clamoroso secondo posto al Fian­dre preceduto soltanto da un incontenibile Niki Terpstra, risultato che gli vale anche il fatto di essere uno dei più giovani di sempre a essere salito sul podio della Ronde. Per conoscerlo, al di là del palmares, siamo ripartiti da quello sprint benedetto (per lui) e maledetto (per il resto del mon­do, a partire da noi italiani).

Quando hai capito di aver vinto?
«A 20-25 metri dal traguardo. Ero convinto che Trentin ci avrebbe battuto, ero concentrato su Kung, pensavo che con lui mi sarei giocato l’argento o il bronzo. Tagliata la linea ero completamente finito dopo una giornata lunghissima, freddissima e faticosissima sulla bici, ma pieno di gioia. Ho provato una sensazione folle: un mix tra l’essere stanco morto e il sentirsi in cima al mondo».

Da quel momento com’è cambiata la tua vita?
«Ho solo una maglia e una bici con una colorazione più bella» ribadisce sor­ridendo.

Questa domanda pe­rò ti sarà già stata posta un migliaio di volte...
«In effetti sì, è chiaro che la gente mi ri­conosca e i giornalisti mi cerchino molto più che in passato. Il ritorno a casa è stato folle, in aeroporto ho trovato ad attendermi tanti tifosi e media, per qualche giorno ho girato come una trottola tra eventi e cerimonie ma è stato bellissimo perché vuol dire che tante persone seguono il ciclismo e che come squadra abbiamo scritto una pa­gina importante della storia di questo sport (la Danimarca in oltre 90 anni di storia non aveva mai vinto il titolo iridato nella prova in linea, ndr)».

Sei diventato un eroe nazionale: che rapporto hai con la popolarità?
«La fama non era qualcosa che desideravo, ma allo stesso tempo non mi spaventa e se anche scomparisse domani non sarebbe un problema. Certi aspetti mi sembrano esagerati ma ci convivo senza perdere la testa, in fondo ho solo vinto una gara in bicicletta. Sono un uo­mo che come tutti mangia e va in bagno, sono come chiunque altro».

Terminata la stagione, qual è la prima co­sa che hai voglia di fare: bere una birra, mangiare del cibo spazzatura o dormire? 
«Di birre ne ho già bevute tante per festeggiare il titolo mondiale, dopo la Milano-Torino sono stato al McDo­nald’s, quindi scelgo la terza opzione. De­sidero riposarmi e godermi del tem­po con le persone a me più care».

Ti sei sposato di recente, è stato più emozionante il mondiale o il matrimonio?
«Sicuramente il secondo, quello sì che ti cambia la vita (sorride, ndr). Lisette, con cui sono fidanzato da sei anni, è la mia compagna di vita perfetta. Mi è stata vicino in ogni momento. Nessuna vittoria in bici potrà essere più bella di un giorno così, che simboleggia l’inizio di un futuro insieme».

Chi devi ringraziare per essere arrivato fin qui?
«Senza dubbio la mia famiglia, della quale però non voglio parlare perché tengo alla mia privacy. La vita privata voglio che resti privata e separata da quella professionale. Scusatemi».

Okay. Parliamo allora della tua prima bici.
«Curiosamente era una Trek, me la com­prò papà Claus (ex camionista, og­gi si occupa del negozio di bici che Mads ha avviato con i suoi primi ri­sparmi, ndr). Lui non ha mai gareggiato, ha sempre pedalato solo per divertimento. Ho iniziato a correre nel 2002, a 7 anni».

Come andò la prima gara?
«Era una manifestazione di Mtb. Ri­cor­do che avevo una bici pesantissima, tanto che in salita fui costretto a scendere dalla sella, ma anche da spingere era troppo pesante così mio padre camminava con la sua sulla spalla destra e la mia sulla sinistra mentre io camminavo di fianco a lui. A quell’età lo sport era puro divertimento ed era giusto che fosse così».

Perché il ciclismo?
«Non so perdere e sono sempre stato molto competitivo. Prima giocavo a calcio, però quando perdevamo mi ar­rabbiavo sempre con i compagni tanto che il mio allenatore mi disse di cambiare sport. Ho provato con il badminton, ma ad ogni sconfitta spaccavo una racchetta. Con la bicicletta ho trovato la mia strada».

E la vittoria.
«Se l’ho spuntata al mondiale è merito anche della mia Trek Madone. I freni a disco con le strade in quelle condizioni sono stati fondamentali, usare le ruote da salita sulla bici aero è risultata una mossa intelligente. Come rapporti ho usato un 54x41 davanti, dopo la categoria juniores ho sempre usato la corona con 54 denti. A un amatore però consiglierei di optare per un 50x37 perché con rapporti più leggeri puoi fare praticamente qualsiasi cosa e con il 10x33 al posteriore si ha la possibilità di affrontare qualsiasi pendenza con un’unica combinazione di rapporti».

Cosa ti piace del ciclismo?
«I sacrifici che questo sport ti richiede in allenamento: il vento, la pioggia, il freddo... La necessità di dovere fare sempre bene nel minimo dettaglio. Una sofferenza non vana, poi viene ripagata dalla vittoria».

Cosa vorresti cambiare?
«Vorrei che nessuno più morisse in sel­la alla sua bici. La sicurezza stradale è la sfida più urgente che il nostro movimento e la nostra società devono fronteggiare».

Se non avessi fatto il ciclista?
«Avrei continuato a studiare nel ramo degli affari e probabilmente avrei lavorato in un ufficio, non so... Sin­ceramente non mi interessa nemmeno pensarci, mi ritengo fortunato e sono felice che ogni scelta fatta mi abbia por­tato a questo punto della mia vita».

Come trascorri il tempo libero?
«Soprattutto con mia moglie e la mia famiglia. Ho la passione dei motori, a casa ho tante moto di cilindrate diverse. A causa degli impegni col ciclismo non ho molto tempo per seguire la Mo­to GP, ma ammiro tutti i piloti così co­me gli altri sportivi di alto livello. Con mio fratello più piccolo andiamo spesso in moto. Quando abbasso la visiera “stacco” davvero, entro in un’altra di­mensione».

L’anno prossimo in squadra arriverà Vin­cenzo Nibali. Cosa pensi di lui?
«È un corridore straordinario sia per le classiche che per i grandi giri. Un corridore da tanti anni al top. Finora l’ho incontrato a poche corse e non ci ho mai parlato. Però sono curioso di co­noscerlo. E sono felice del fatto che saremo compagni: sono certo che m’insegnerà molto. Quando uno come lui parla, ti devi sedere e ascoltare perché c’è sicuramente da imparare».

Dopo il mondiale, quali altri sogni vuoi esaudire?
«Voglio far vedere di andar forte nelle Classiche, non semplicemente ottenendo un risultato sporadico, ma dimostrando di avere un rendimento costante. Nella prossima stagione vorrei di­sputare il Tour de France perché nel 2021 partirà da Copenhagen e ci voglio arrivare con almeno una partecipazione alle spalle. Alle Olimpiadi sono quasi sicuro di non andare perché sono troppo pesante per essere competitivo sul percorso di Tokyo. La mia Nazionale può puntare su Fuglsang che necessita del miglior supporto possibile e io, per le mie caratteristiche, non posso darglielo su un tracciato come quello in programma. A fine anno sarò al via del mondiale in Svizzera per difendere la maglia, anche se il percorso è per scalatori. Obiettivamente avrò al massimo l’1% di possibilità di riconquistare questa maglia».

La corsa più bella di tutte?
«Spero di vincere presto la Parigi-Rou­baix. È la classica che sogno fin da bambino. E poi tutte le altre, a cominciare dal Fiandre, col quale ho un conto in sospeso: nel 2018 sono arrivato secondo. Mi auguro, grazie anche alla maglia iridata che a tutti alza l’autostima, di vincere presto le più importanti Classiche».

In tre parole, come descriveresti il campione del mondo Mads Pedersen? 
«Concentrato, divertente e quasi sempre felice».

da tuttoBICI di novembre

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