Maggio 2002. Il Giro d’Italia cominciava nei Paesi Bassi, a Groeningen. Avevo chiesto il permesso di tenere un “diario del gregario”, permesso accordato, purché fosse pubblicato non sul quotidiano cartaceo ma sul sito Internet, meglio - pensai – così rimarrà per sempre. Andai all’aeroporto, era provinciale, un paio di capannoni, le squadre arrivavano a singhiozzo, i corridori a grappoli. Avevo scelto il corridore con il cognome meno adatto a un corridore: Scarponi, Michele Scarponi dell’Acqua & Sapone-Cantina Tollo, dorsale numero 17. Incuriosito, divertito, spensierato, mi disse subito di sì. Sarebbe stato, per tutti e due, il primo Giro d’Italia.
Tutte le volte che si parla di Scarponi, si comincia dalla fine, si è assaliti e annichiliti dalla sua fine, dalla sua morte, in una rotonda, schiacciato dal furgone guidato da un compaesano, che lo conosceva, ma che, abbagliato dal sole, non lo aveva visto. Per questo ho cominciato ricordando l’inizio – l’inizio della nostra conoscenza e amicizia -, così come Alessandra Giardini ha cominciato la storia di Scarponi scrivendo dall’inizio, l’inizio della vita di Michele. “Cantalupo è un bar, una balera, una scuola d’infanzia, una fabbrica tessile, una ventina di case, tanti tanti campi. Un po’ di fossi, qualche albero, e tanto cielo. Michele scorrazzava dappertutto, senza fermarsi un attimo. Era nato trascinatore. Quando la sera finalmente lo mettevano a letto, si spegneva di colpo, stremato”.
E’ il terzo libro su Michele Scarponi: dopo due antologie (“Caro Michele – una vita alla Scarponi”, la prima parte nel 2021, la seconda nel 2023), ecco “Michele Scarponi – profondo come una salita” (192 pagine), scritto da Giardini e anche questo voluto dalla Fondazione Michele Scarponi per ricordarlo, tramandare la sua parabola, forse anche insegnare perché ogni esistenza può essere un insegnamento, e comunque per continuare a battere la strada, ma una strada dove si rispetti chi appare più piccolo e debole, chi è più fragile e indifeso. Un lungo racconto attraverso la famiglia e gli amici, le corse e i corridori, i Giri e i Tour, le Liegi e i Lombardia, il Sassotetto e l’Etna, il Colle Gallo e il Rifugio Gardeccia, gli altari e le polveri, compresa la squalifica di 18 mesi per “uso o tentato uso di metodo vietato”. Doping. Dunque le cadute e le risalite. “Profondo come una salita” è un bel titolo, rende l’idea non solo dei percorsi più adatti alle caratteristiche tecniche di Michele, ma anche di tutto quello che ci sta prima e dopo, davanti e dietro, sopra e sotto, la sofferenza, i sacrifici, le rinunce, ma anche i segreti, i misteri, i silenzi. Una vita, appunto.
Scarponi sorrideva e rideva, scherzava e bluffava. Scarponi era un attore in bicicletta, un commediante mancato, un cartone animato. Scarponi aveva la battura pronta, immediata, istintiva, e una faccia mobile, plastica, da effetti speciali. Scarponi era generoso, trasmetteva allegria, diffondeva buonumore. Scarponi sembrava prendere tutte le cose con un senso di leggerezza, fin troppa. Eppure quella volta che lo chiamai per un’intervista, lui si arrabbiò, ma veramente, perché avrebbe voluto un’intervista seria, banale, noiosa, come quelle che si facevano agli altri presunti campioni, gli spiegai che il suo bello era la spontaneità, poi chissà se lo fece per amicizia, o per convinzione, o per rassegnazione, ma l’intervista fu di quelle “alla Scarponi”, il risultato esilarante, a metà fra “Zelig” e “Colorado”, fra surrealismo e cabaret, fra il Battista di Achille Campanile e il gregario di Gianni Rodari. Perché lui, Michele, era proprio così: speciale, particolare, unico.
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