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di Marco Pastonesi | 31/03/2020 | 07:50

 

Giordano Tognarelli: chi era costui? Tra lavoro di memoria e ordine di archivio, spulciando e rispolverando, ho scoperto il suo ritratto. Inedito e dimenticato.

Quando nacque, il 30 maggio 1922, il Giro d’Italia affrontava la quarta tappa, la Bologna-Pescara, stravolto nella classifica e sconvolto dalle polemiche: la Bianchi di Costante Girardengo e Tano Belloni e la Maino di Giuseppe Azzini si erano ritirate per protesta, e il successo sarebbe andato a Giovanni Brunero, uno scalatore piemontese della Legnano. Giordano Tognarelli avrebbe vissuto in quello stesso mondo di strade e di ciclismo.

I Tognarelli: toscani “di Ponte Buggianese”, papà “muratore”, mamma “in casa”, fratelli “tre, io il terzo”. Io è lui, Giordano. Lo incontrai anni fa, strade facendo, le strade del ciclismo, un luogo ubiquo, un regno terrestre, un dominio pubblico, e poco importa se fu Ponte Buggianese, la sua Betlemme, o Montecatini Terme, il suo Golgota. La scuola “fino alla quinta elementare”, il lavoro “con mio padre”, la guerra “tre anni in Jugoslavia”, la bicicletta e il ciclismo “cominciato tardi, a 23-24 anni”, la prima squadra “l’Associazione ciclistica Montecatini, la stessa di Fiorenzo Magni e Alfredo Martini”, la prima maglia “quella biancoceleste della Montecatini”, le prime corse “da casa, con il sacchetto del mangiare, una cinquantina di chilometri per andare a Firenze, poi 150 chilometri di corsa, infine, se andavo bene, la cinquantina di chilometri per tornare a casa la facevo in macchina o in moto con la bici sulle spalle, se invece non andavo bene, me la facevo in bici”, la prima vittoria “a Monsummano Terme, mi sembra”, i premi “un po’ di soldi, un orologio d’oro, molta soddisfazione” e più tardi “salami e galline, da amatore a Genova, con Luigi Zaimbro, Rinaldo Moresco e Giulio Ricciardi”.

Tognarelli era uno scalatore, “certo non un velocista: se eravamo in tre, finivo terzo”, “invece in salita andavo bene, corridori come Ivo Baronti e Renzo Soldani si arrabbiavano, ‘scatti sempre’ si lamentavano”. Nel 1948 andò a Milano, “alla Spallanzani, mi aiutavano”, “attraverso alcuni amici ristoratori ricevetti una Legnano, era appartenuta a Leopoldo Ricci, un viterbese”. Fu la stagione più felice, “dilettante, 35 vittorie, quell’anno la Milano-Lugano e il Giro del Lazio, a tappe, primo a pari merito con Pietro Giudici, ma a lui la vittoria finale per i migliori piazzamenti”. Tanto da passare indipendente e saltuariamente professionista, con la Viscontea-Ursus “dove il direttore sportivo era Tano Belloni e il meccanico Pinella De Grandi” e con la Benotto-Superga. Nel 1951 finì la Milano-Sanremo “centotrentaquattresimo, ma non ultimo” e il Giro di Toscana “sesto a pari merito, ma siccome ci classificarono in ordine alfabetico, risulto trentesimo”.

Quanti ne ha conosciuti. Belloni: “Era un brav’uomo, un omone, con sopracciglioni folti. Da direttore sportivo parlava solo delle sue corse, ma non insegnava. Mi diceva ‘svegliati!’, gli rispondevo ‘ma se non ho le forze’. Al Giro di Toscana 1951, all’Impruneta passai staccato, lui mi dette sferzate di ortica sulle gambe perché andassi più forte. Le gambe mi bruciavano, ma non andavo più forte”. Gino Bartali: “Ci conoscemmo a Montecatini, allo sposalizio di Bruno Pasquini, con cui mi allenavo, poi ci corsi insieme, più in allenamento che in gara, lui e il suo gruppo passavano di qui e io mi aggregavo. Beveva, fumava e brontolava, ma aveva dieci marce in più. Invece io, i primi 150 chilometri andavo come loro, anche in salita, poi cedevo. Dopo che vinsi il Giro del Lazio, Bartali diceva ‘attenti a quello lì che va forte’”. Fausto Coppi: “Lo incontrai in Liguria, un mese a Varazze ad allenarmi e Carbunin a massaggiarmi. Coppi mi disse ‘ti prenderei, ma sei piccolino’, ed era vero, al confronto Carrea e Milano erano due stangoni, due marcantoni, due guardie svizzere”. Mario Ricci: “Un signore”. Perfino Jean Robic detto “Testa di vetro”: “Aveva tante esigenze, quel giorno al Giro di Toscana non andava, bisognava spingerlo, lo feci sulle Piastre, e poi si ritirò”.

Quante ne ha viste. “Mondiali 1952 in Lussemburgo. Ci andai come spettatore. Magni arrivò quarto. Al ritorno, in treno, nel vagone-letto, cedetti il mio posto a Loretto Petrucci e mio suocero cedette il suo a Bartali. Mio suocero, socio della Spallanzani, era malato per Bartali: si erano conosciuti a Montecatini Terme quando Adolfo Leoni vinse la tappa del Giro d’Italia e io ero impegnato in una riunione su pista, la pista era quella dell’ippodromo”. “Mai preso una cotta, mai sceso di bici, mai pianto, però spesso pregavo ché non mi succedesse qualcosa. E invece successe. In allenamento, scendendo a Pescia, trovai un barroccio, spaccai ganasce e denti, e mi feci tre mesi all’ospedale”. “Erano fatiche terribili, per sopportarle bisognava fare la vita: mangiare bene, dormire bene, allenarsi bene, e le donne il giusto, perché se cominci, addio”. “In corsa, nelle tasche, frutta e panini, nella borraccia tanto caffé, però di notte ero così stanco che comunque dormivo, e la peptocola, che si prendeva in farmacia e la si dava anche ai bambini, e zuccheri, per curare tosse e bronchiti”. “Quante corse perse per le forature. Il figlio di Carlo Galetti faceva tubolari con due valvole. Li aggiustavo da solo. Bisognava aprirli, immergerli nell’acqua, ricucirli con il punto croce, riattaccarli con il mastice, venti minuti per ripararli e due minuti per montarli”.

Tognarelli è morto il 25 ottobre 2015, aveva più di 93 anni. “La bici mi ha dato tanto, innanzitutto la salute. Mi ha fatto diventare uomo, ma non un signore. Mi ha dato la possibilità di conoscere persone e scoprire luoghi: la Puglia, la Sicilia, la Francia, in viaggi indimenticabili ed eterni: in treno, bici al seguito, una fermata a ogni stazioncina”.

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