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L'ORA DEL PASTO. -1 AL GIRO, LE MILLE AVVENTURE ROSA DI DINO ZANDEGU'
di Marco Pastonesi | 08/05/2025 | 08:10

Cinque giorni al Giro d'Italia 2025. In attesa di Roglic e Ayuso, Bernal e Carapaz, Ciccone e Tiberi, Van Aert e Pidcock, viviamo il conto alla rovescia nei racconti di antichi protagonisti. Oggi, -1 al pronti-via, chiude la serie Dino Zandegù.

Zandegù si nasce. Dino è nato il 31 maggio 1940 a Rubano, a sempre meno chilometri da Padova, un giorno da Giro d’Italia, proprio da quelle parti si correva la tredicesima tappa, la Ferrara-Treviso, e forse lui fu contagiato dal percorso, breve e piatto, per diventare un passista velocista, la frazione fu vinta da Olimpio Bizzi e la maglia rosa mantenuta da Fausto Coppi. Zandegù deve molto al Giro: sei tappe vinte più una cronosquadre, una maglia ciclamino a punti e perfino una maglia rosa seppure non riconosciuta dalle statistiche ufficiali.

Zandegù, la prima volta?

“Nel 1964, emozionato come al ballo delle debuttanti, è vero che potevo vantare un titolo di campione del mondo, quello del quartetto della cento chilometri nel 1962 da dilettante, ma è ancora più vero – ci sono cose più o meno vere – che di una corsa come il Giro sapevo poco o niente, più niente che poco. Correvo per la Cynar. La Roccaraso-Caserta ero già cotto a Roccaraso, giunsi a Caserta distrutto e disperato, a un pelo dal fuori tempo massimo, la squadra mi aveva dato per disperso e revocato la camera in albergo, dormii nella stireria così com’ero, con le banane nelle tasche posteriori che durante la notte mi si spiaccicarono addosso”.

La prima vittoria?

“Due anni dopo, al Giro d’Italia 1966, la tappa da Campobasso a Giulianova. Correvo per la Bianchi, una squadra senza capitani, e su una Bianchi, più leggera di quella di Coppi, eravamo tutti luogotenenti, io ero considerato il velocista, così se a qualche chilometro dall’arrivo il gruppo era ancora compatto, una mano i compagni cercavano di darmela. Il direttore sportivo era Pinella De Grandi, detto Pinza d’oro, era stato il meccanico di Coppi e questo valeva come una laurea ad honorem al Politecnico di Milano. Gruppo compatto, volatona, ordine d’arrivo da campionato del mondo, peccato che non lo fosse, primo io, secondo Basso, terzo Taccone, quarto Motta, quinto Bitossi… Al traguardo l’abbraccio di Luciana Turina, la cantante, io facevo il Giro, lei il Cantagiro, l’impatto fu forte, riuscii miracolosamente a svincolarmi prima che mi soffocasse e a ricevere il mazzo di fiori”.

Due giorni dopo concesse il bis.

“Verissimo. Si correva la Cesenatico-Reggio Emilia, stavolta si sganciò una dozzina di corridori, riuscimmo a mantenere un vantaggio decisivo fino all’arrivo, vinsi quasi per distacco, un altro ordine d’arrivo da campionato del mondo, peccato che non lo fosse, primo io, secondo Dancelli, terzo Da Dalt, un veneto dell’Alto Friuli sveglio e veloce che si piazzava spesso fra i primi dieci, quarto Basso… Quel Giro d’Italia avevo fatto il fioretto di non bere neanche un calice di vino, andavo forte anche in salita, quando mi staccavo non mollavo ma tenevo duro sputando l’anima dai polmoni, cercavo di rientrare a costo di rimanere a bagnomaria, lottai per entrare fra i primi dieci, non ce la feci, però arrivai buon undicesimo. Fu un’annata speciale, come per certi vini: avevo conosciuto Lalla, volevo dimostrarle che non ero un brocco e che, nonostante apparenze e dicerie, si poteva fidare di me”.

Com’era quella Bianchi fra i tempi di Coppi e Gimondi?

“I due fratelli Massignan, Imerio, l’uomo del Gavia, e Enrico, minore di età e talento. Altri due vicentini, Albano Negro, longilineo, purtroppo venuto a mancare ancora giovane, e Mario Maino, campione del mondo in quel famoso quartetto della cento chilometri. Due toscani, Bruno Mealli, che era stato anche campione italiano, e Roberto Poggiali, che ancora adesso, se gli chiedi di una corsa, sa recitarne protagonisti, trama e titoli di coda come se fosse un film. Carmine Preziosi, italiano di Sant’Angelo all’Esca vicino ad Avellino ma belga di adozione, con la sfortuna che gli italiani lo consideravano belga e i belgi lo consideravano italiano e così invece di avere due patrie non ne aveva neppure una. Un altro campano, Francesco Miele, e un lombardo, Toni Bailetti, mio compagno di stanza, mio compagno alle Sei Giorni e mio compagno anche di allenamento”.

Non c’era anche Venturelli?

“In squadra sì, al Giro no. Meo era matto. Quando ne aveva voglia, era capace di battere gli scalatori in salita, i velocisti in volata e i cronomen a cronometro. Peccato che non ne avesse quasi mai voglia”.

Zandegù, ci sarà al Giro?

“Una rimpatriatina la farò, ho due o tre tappe nel mirino, sono stato invitato a Vicenza alla presentazione del libro su Marino Basso, ma io vorrei essere invitato per una presentazione di quello su di me. Colgo l’occasione per ricordare il titolo e invitare all’acquisto, parola mia non ve ne pentirete, si chiama ‘Se cadono tutti vinco io’, un evento che non mi è mai successo ma che – non me ne vogliano i colleghi - mi auguravo spesso”.

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