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UNA NUOVA LETTERATURA
di Gian Paolo Ormezzano | 25/01/2022 | 08:07

Ogni tanto si pensa che lo sport, tutto lo sport di tutto il mondo, sia molto avanti nell’esplorazione di se stesso e delle sue genti, cioè dell’uomo (inteso anche come don­na, si capisce) che lo pratica, e che dunque ogni primato debba essere considerato come il frutto di un lavoro lungo, intenso e assai specialistico, con l’ausilio magari di un po’ di fortuna, e co­munque con miglioramenti sempre minimi, soffertissimi.

Ogni tanto si pensa il contrario, cioè che lo sport non abbia sfruttato sinora che una parte delle possibilità dell’uomo, co­me provato, raramente ma regolarmente, da improvvisi miglioramenti di primati, con produzione di performances impensabili sino a pochi minuti prima del suo conseguimento: un esempio i 400 metri ad ostacoli ai Giochi ultimi di Tokyo.

Ogni tanto un qualche sport de­cide di cambiare se stesso, le sue re­gole, il suo show che pure sem­brava dover essere immutabile. Di solito questo avviene per intervento della tecnologia che ispira nuove specialità con nuovi strumenti, dalla scarpetta al motore, ogni tanto è, ma guai a dirlo esplicitamente, una so­prav­venuta variante di natura chimica, che può essere chiamata doping ma anche scienza del­l’alimentazione o semplicemente medicina sportiva.

Ogni tanto si usa a fondo il relativamente nuovo strumento che si chiama televisione, però co­niugata se­condo le infinite nuo­ve interpretazioni con infinite aperture tecnologiche, per imporre addirittura uno sport nuovo o rinnovato o riscoperto e riproposto. E così ecco il padel accanto al tennis, ecco che i Giochi olimpici ospitano specialità assortite, dall’arrampicata estrema alla break dance: si vede di tutto e pazienza se non si capisce più tutto.

In sostanza lo sport ribolle di novità intanto che però i 100 me­tri nell’atletica o nel nuoto re­stano i 100 metri di sempre, nel senso di eccellenza e nobiltà (casomai, bisogna prepararsi all’avvento di nuovi generi, trans eccetera). In sostanza lo sport è un gran casino (il termine ex osceno ormai è sdoganatisissimo e torna utile) di cose nuove appoggiate su cose vecchie, oppure nate proprio per essere delle stesse cose vecchie il più o meno esatto contrario.

E in mezzo a tutto questo ribollire di nuovo assoluto o a questo ricuocere sport vecchi con ingredienti nuo­vi, come sta, cosa fa, cosa rimane o cosa diventa il ciclismo? Quel ciclismo che, nato per esplorare spazi grandi, adesso si avvita in spazi anche piccoli, sommariamente definibili co­me piste però scovate nella na­tu­ra e non obbligatoriamente create all’interno di cattedralacce costruite dall’uomo.

Cosa ne è del ciclismo caro? Lo chiediamo e soprattutto ce lo chiediamo, per conto della gen­te che ha il diritto di fruizione - dello sport nuovo e di quello vecchio - e non anche il dovere di ispezione, di controllo, di par­tecipazione troppo complessa agli show propostile o impostile. Ce lo chiediamo credendo in un giornalismo che pone an­che domande di questo tipo, so­prattutto dopo avere quasi smes­so di raccontare. E annotiamo che il ciclismo fruisce di nuovissime tecnologie ma intanto riscopre e si regala le strade bianche, continua a scalare le montagne ma lo fa anche - co­me dire? - a balzelloni, con quella cosa che si chiama mountain bike e sorellame. Che è uno sport assai avanti nel culto della va­lutazione uomo-donna, nel senso che le ciclistesse sono più vicine ai ciclisti di quanto lo siano, per esempio, le nuotatrici ai nuotatori, anche se il nuoto si addice eccome alle donne. E al proposito viene da ricordare che c’è uno sport in cui la don­na sta più avanti, come performances, dell’uomo, ed è la ginnastica artistica: nessun uomo avvicina quella ragazzina Usa di colore, pure ottima pensatrice, che fa cose sublimi annullando il suo stesso peso, e senza sbrodolamenti eleganti ma talora bambineschi come invece avviene (esempio comunque interessante) nel pattinaggio esso pure detto artistico.

Il sogno di chi scrive queste righe è una sorta di stati ge­nerali del mondo tutto del­la bicicletta, per studiare strade, nuove e vecchie, e per studiarsi. Per prendere atto della propria universalità, ormai, superiore forse a quella di qualsiasi altro sport, e della sua immane vis ecologica, e intanto, ahinoi, del­la staticità mentale dei suoi dirigenti e padroni, magari teneri e poetici ma intanto lenti e timorati. E per sollecitare casomai una letteratura ciclistica nuova, persino più suggestiva di quella che pure fece le sue fortune agli al­bori: casomai riesumando una certa poetica antiqua, mentre il resto dello sport cerca di comunicare con formule aride, grafica algida, fonetica in neolingua inglese cioè nuova koiné. E pa­zienza se, sottomessi a questo sport nuovo, ci scopriamo dentro, ma proprio tanto dentro, la voglia povera di controllare se in salita davvero i pedalatori sgocciolano se stessi di sudore segnando la strada alla maniera di un Pollicino liquido.

Il ciclismo può diventare o ritornare il primo degli sport. Fra l’altro ha già scoperto e assimilato il suo mondo petrolarabo, però su strade vuote e non in cantieri mortiferi di impianti sportivi: vuoi mettere?

da tuttoBICI di gennaio

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