Viene in mente al vecchio giornalista delle due ruote senza motore (e senza pedalata assistita elettricamente) una sorta di paradosso che poi paradosso non è, come accade sempre o quasi, nella storia piccola e grande dell’umanità, dove la bizzarria massima presto o tardi diventa regola, normalità: il ciclismo è l’unico dei grandi sport popolari a dare sempre qualcosa e spesso molto alla televisione, mentre in linea di massima la televisione dà qualcosa o molto agli altri sport, su tutto la visibilità che è anche pubblicità.
Subito un esempio, magari il più semplice ed intenso: nel calcio è indubbio che la televisione dà molto a questo sport, anzi a questo gioco, con riprese sempre più ricche e intriganti, giochi di andirivieni sullo schermo fra il tutto scenico e il particolare intimistico, primi piani in linea di massima efficaci e rivelatori e magari anche spettacolari, e ultimamente pure il passaggio (che sembra un passeggio, una carezza elettronica) delle telecamere sulla folla dello stadio, a scoprire situazioni ed atteggiamenti speciali. Al calcio la televisione dà ogni giorno di più, con il progredire della tecnologia e quindi della forza e chiarezza e “presa” delle immagini (accade talora anche con il criticatissimo Dazn, che toglie qui ma inventa lì). Basta guardare, per un confronto, alle squallide, povere ritrasmissioni di partite antiche - specialmente su Rai Sport ora purtroppo “minata” dalle novità che mandano fuori uso apparecchi e decoder - con immagini che nel mondo del cinema si dicono da pellicole della serie “piovosa”, con gli schermi rigati, imperante poco dopo la scoperta dei fratelli Lumière.
E si pensi anche alle folle di allora riprese sugli spalti: pochissime donne, spesso nessuna, uomini in giacca e/o cappotto, tutti col cappello a tesa o tipo berretto basco che evidentemente “faceva sportivo”, sguardi concentrati sul campo di gioco mentre adesso la gente degli stadi ha preso l’abitudine a guardare anche i grandi tabelloni televisivi, con immagini del campo ma anche delle gradinate: e così spesso uno si scopre ripreso e “proposto” al grande pubblico, lì allo stadio come nelle case, e fa la faccia insieme stupita e contenta e pazienza se anche scemotta, quando addirittura non trova il tempo per sventolare un salutino con la manina. Gente che è ripresa, il che in fondo significa presa due volte, cioè attirata se non imprigionata allo stadio e poi usata per fare un minimo di scenografia umana che non sia solo di genere atletico (servono a ciò anche i nevrastenici delle panchine, sempre più scovati ergo usati dalle telecamere).
Una competizione ciclistica, che non sia rinchiusa, compressa quanto a immagini e sequenze in una pista dove tutti i concorrenti sembrano fare la stessa identica cosa, cioè pedalare uniformemente, “dà” invece, “dà” eccome, alla televisione e di riflesso ai telespettatori dovunque essi siano. Sullo schermo città affollate e vuotissimi deserti, grattacieli e palme da datteri, asfalto o sabbia e corsi d’acqua, pianure e montagne, verde di erba giallo di grano nero di lava azzurro di mare rosso di fiori, bacini di acque piccoli, lacustri, o immensi oceani. Il paesaggio, insomma, cioè il mondo, naturale ed artificiale. Sulla strada e ai lati di essa non solo biciclette ma automobili, motociclette, carri, veicoli... E poi uomini nel senso anche di donne e bambini, un immenso diorama umano, facce felici, ansiose, gaudenti, irate, partecipi, snobbanti…
Qualcosa o anche molto di questo viene teleofferto pure da altri sport, chi lo nega?, ma in genere questi stessi sport recepiscono e distribuiscono quello che la televisione dà loro, mentre il ciclismo offre alla stessa televisione una materia composita e sempre rinnovantesi, chilometro dopo chilometo anzi metro dopo metro di strada. Con creazioni speciali, inattese specie per gli inesperti: si pensi alla “scoperta” di cose (facce, corpi, fachirismi, acrobazie, maquillages col fango) offerta dall’ultima strepitosa Parigi-Roubaix, con la novità della data autunnale e dunque di un tempaccio spettacolare, e per noi italiani poi con l’epifania di un certo Sonny Colbrelli.
C’è una morale, nel senso non a tutti i costi etico di conclusione, di questo nostro amoroso arzigogolo? Purtroppo sì - temiamo, o meglio temo - ed è che il ciclismo continua a non sapere cosa, quanto vale in tanti sensi, e a regalare tutto se stesso ad una sorta di vampirizzazione eseguita da tanti, a offrire anche sulla propria pelle ingredienti per ogni tipo di spettacolo, dalla umana sofferenza estrema alla quasi soavità arcadica. E continua intanto a patire sui media, dalla televisione in giù o in su, la sottomissione quanto a spazi e tempo a sport che prendono di più e danno di meno (per non dire sempre del calcio, si pensi al riveritissimo tennis, un balletto con cast umano ridottissimo e in posti eguali fra di essi, lo stesso scenario naturale artificiale giorno dopo giorno). Storia vecchia, ma ripetersela dentro, rinnovarsela addosso fa sempre nuovo male.