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L'ORA DEL PASTO. QUELLI DELLA GIR... AVOLTA: LUIGI MELE - 8
di Marco Pastonesi | 27/05/2025 | 08:18

Tema: “Che cosa vorresti fare da grande?”. Svolgimento: “Io voglio fare, quando vengo gruosso, il corridore ‘ingoppa alla bicicletta. Accussì quando passa lo Giro d’Italia per la nazionale ci sto pure io e saluto li paesani”. Luigi Mele sarebbe stato di parola: professionista dalla fine del 1960 a tutto il 1964 (più una decina di corse nel 1966 con una squadra svizzera), tre Giri d’Italia e un libro, “Il gregario canterino” scritto dal figlio, Silver Mele, e pubblicato su Amazon, in cui si racconta. A cominciare da quel giorno del maggio 1949 quando, in un paese del Casertano, Calvi Risorta, sulla Casilina, “a basciu a strada”, aveva visto passare il gruppo. “C’era Fausto Coppi e poco più in là Gino Bartali, ma l’incitamento era anche per Magni, Cottur, Leoni, Astrua. L’amore e il rispetto per quegli uomini univa tutti gli appassionati in maniera solidale: quel ciclismo era molto di più di uno sport. Era l’inno all’uguaglianza, alla corsa che finalmente ripartiva per un futuro migliore, in cui ognuno poteva dire la sua e giocare la carta”.

Dai giochi per le strade di Calvi Risorta (“Il manuale per la caccia alle bombe era semplice: o si esportava il detonatore rendendola innocua oppure si tirava via la spoletta dell’ordigno per poi ricavare l’involucro da vendere a pochi spiccioli all’uomo del ferrovecchio”) a quelli di Torino, dove era emigrato con la famiglia in cerca di fortuna (“Il treno della speranza sul quale, a Sparanise, caricammo le nostre povere cose fu per me la prima, vera scoperta”, “Il viaggio lungo 18 ore”, “Le mie volate” sulla bici del padre “in slalom tra i tram e le vetture”), dalla sfida con Nino Defilippis (“L’impegnativa salita per Pino Torinese, 5 chilometri e 400 metri di dislivello, senza metter le mani sul manubrio”) alla colletta dei compagni di classe (“Tieni, Mele – disse la maestra – portali a casa così tua mamma potrà comperarti un pantalone lungo e un paio di scarpe”).

Il primo Giro di Mele fu quello del centenario nel 1961. E lo cominciò da capitano. Lui stesso lo scoprì leggendo un’intervista di Nino Rota a Charly Gaul sulla “Gazzetta dello Sport”. La prima tappa, 115 chilometri, partiva e arrivava a Torino. “Può vincere chiunque – rispose Gaul a Rota -, specialmente un velocista che si difenda in salita. Comunque la Maddalena non è la mia salita e poi domani il caposquadra sarà Gigi Mele”, “è torinese e muore dalla voglia di mettersi in vista”. Non andò così, ma pazienza. Fu un Giro poco fortunato: la tonsillite, la febbre, la settima tappa da Reggio Calabria a Cosenza anche una caduta, “ripresi i sensi il giorno dopo in una sala d’ospedale a Paola”.

Meglio il suo secondo Giro, nel 1963, ormai gregario. “Durante la tappa che arrivava a Pescara cadde nella rete un pesciolone” - la rete, quella dei ritardatari; il pesciolone, un uomo di classifica – “di nome Adorni. Lo trovammo a 60 chilometri dall’arrivo, fermo a una fontana. Avevamo 20 minuti di ritardo. Mi ricordo che, a 20 chilometri dal traguardo, sapevamo già chi aveva vinto la tappa. Quando arrivammo stavano smontando il palco. Avevano lasciato solo il settore riservato al ‘Processo alla tappa’ perché Zavoli aspettava ancora Adorni. Per noi che lo scortavamo, in un certo senso fu una giornata di gloria”.

Meglio ancora il suo terzo Giro, nel 1964, sempre gregario ma con maggiore libertà. “Avevo puntato, tra gli obiettivi, quello dei traguardi tricolori. Così spesso finivo nelle fughe o le propiziavo con scatti e allunghi per giocarmi gli sprint volanti a ranghi non proprio compatti”. Quel giorno di grandine, in ritardo di un paio di minuti con altri compagni, quando fu investito dal direttore sportivo “fareste bene a scendere dalla bicicletta, magari provate a fare i parrucchieri”. Quello stesso giorno in cui non solo rientrò in gruppo ma ne uscì in fuga con un altro casertano, Alberto Marzaioli, poi rimase da solo, finché all’ultima curva gli si bloccò la leva del cambio, “scesi dalla bici e con le mani cercai di risistemare il danno” e “fui superato poco dopo il triangolo rosso dell’ultimo chilometro”. Quel giorno, l’ultimo, l’arrivo finale nel Vigorelli a Milano, superato allo sprint solo da Willy Altig, una delusione mai smaltita, mai scordata, Adriano De Zan che lo voleva sul palco: “Non andai al microfono della Rai: sapevo che avrei pianto”. Che Giravolta.

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