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di Gian Paolo Ormezzano | 26/10/2018 | 07:32

Dedicato alla grande personale tristezza giornalistica e non solo - la mia di me, sì - di aver capito quasi tutto “prima”, di averlo scritto anzi scribacchiato e comunque con poca forza esplicita e senza la cassa di ri­sonanza di qualche tempo pri­ma, e dunque di non sperare di essere considerato per la mia precocissima visione del ci­clismo del 2000. Da qui una sorta di mio grande atto di do­lore, nelle righe che seguono e che si allacciano ad altre mie righe, anche qui, più o meno sullo stesso tema.

Per ordine: il ciclismo adesso è assolutamente il primo sport al mondo come intensità di calendario (dodici mesi di ga­re l’anno), vastità di geografia (tutto il mondo), folla di praticanti diretti o indiretti, pedalanti o interessati alle gare e ai raduni, acquirenti di biciclette anche costosissime, e infine respiro forte, ecologico, sano, “sportivo” davvero da usare nel mondo dello sport prossimo venturo. Tutto già da me scritto ma assolutamente da ri­scrivere, qui e non solo, ora e non solo.

Scrivevo ai miei bei tem­pi che, quando fossero arrivati nel mondo della bicicletta gli atleti veri, al po­sto degli scorfani fachiristici, fossero arrivati i supernutriti e dunque supermuscolati, le co­se (e le corse) sarebbero state diverse. Passavo per pazzo, in­namorato assurdo nonché sce­mo di atletica e nuoto, i miei sport “di origine”, sport misurabili, chiari. Ero un bieco in­namorato della scienza applicata allo sport e dunque anche al ciclismo. Scrivevano ancora sui giornali i cantori facili, spesso più entusiasti che grammaticalmente a posto, del­la poesia, della fatica, in­somma della retorica che li ave­va ingrossati. Quelli della “palpitante incertezza” che ad ogni vigilia cercava di mascherare la loro ignoranza e la loro paura di esporsi in un pronostico.

È arrivato adesso in pieno il “mio” nuovo ciclismo. È sport semplice, vince chi spinge di più sui pedali, non importa come (Froome). Una volta c’erano i gregari che faticavano per il padrone sino alle fasi ul­time della gara, i rifornimenti privilegiati, magari un costoso doping segreto. Ora ci sono gli atleti veri e forti, dal mon­do tutto, spinti dalla scienza medica avanzata e non per questo a priori disonesta. Si guardino gli ordini d’arrivo del­le gare di oggi, grandi e pic­cole: prima c’erano, ai pri­mi dieci posti, tre italiani, tre francesi, tre belgi e uno fra spagnoli, olandesi, tedeschi, svizzeri, ogni tantissimo anche lussemburghesi e portoghesi e britannici. Tanta se non tutta Europa. Adessso ci sono au­stra­liani, inglesi anzi britannici, statunitensi, canadesi, co­lombiani, messicani, russi, esteuropei assortiti (Sagan è slovacco), sudafricani bianchi o neri, in attesa “sicura” di giapponesi, cinesi, magrebini, kenyoti proprio del Kenya (non bianchi come Froome), in­somma alla grande asiatici e africani.

Nessuno sport ha tanta universalità, anche perché in bicicletta vanno un po’ tutti. Già detto ma da ridire, da urlare. Già scritto ma da incidere sulla pietra, sul metallo. Le meglio biciclette costano quasi come auto utilitarie, ormai, eppure nessuno si arrabbia, in fondo sono anche strumenti di salute.

Questo ciclismo dà ragione al giornalista che, arrivato ad es­so nel 1959, anziché praticare l’onanismo facile della gloriosità storica italofrancobelga, disse e scrisse: il ciclismo è sport arretrato, limitato, sport di strapaese per una porzione piccola di mondo, e quando arriveranno gli americani del nord forti come sequoie, gli americani del centro resistenti come fachiri e non più sottonutriti, cambierà tutto. Fatto, e in pochi anni.

Scrivevo allora circondato e “tarpato” da vecchi cantori no­bilmente rincoglioniti e ab­barbicati alla loro lunga stagione di grande popolarità. Di­cevo e scrivevo che Merckx era più forte di Coppi (Fausto più grande, altra cosa), mi da­vano del pazzo blasfemo op­pure mi rubavano la definizione, manipolandosela.

Adesso i figli e nipoti giornalistici di quei cantori parlano di crisi del ciclismo, tanta tivù e anzi troppa tivù che lo volgarizza, lo smitizza, pochi inviati al seguito delle corse, basta ed avanza appunto la tivù, e fra l’altro sono minori occasioni di abbuffate spesate, con an­che note spese dilatate. En­fa­tiz­zano i campioni del tempo dei nonni e dei padri, e cercano di dimensionare quelli di adesso, anche se sono assai più forti e hanno il merito di saper pure loro soffrire pedalando, quando avrebbero altre op­por­tunità di successo economico nella vita, magari sempre in bicicletta ma con altre for­me di ciclismo estremo o sofisticato. Mentre i campioni di una volta pedalavano e pedalavano e ciao.

Nel 2019 si celebrano i cento anni dalla nascita di Fausto Coppi. Se non sarò morto e se mi prenderanno ancora sul se­rio proverò a dire queste cose: anche a Castellania, alla faccia di chi mi dirà che Fausto è il mas­simo dei massimi di ogni tempo, anche del tempo futuro (sentenza sentenziosissima che avrebbe fatto inorridire Coppi, grande laico della sua religione, grande loico del ra­gionamento).

da tuttoBICI di ottobre

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