Magari Budrio la conoscete già perché qui, ve lo hanno raccontato a scuola, nacque l’uomo che inventò i fusi orari, Giuseppe Barilli detto Quirico Filopanti. O forse perché avete letto le avventure dell’Itala al raid Pechino-Parigi e vi ricordate che Ettore Guizzardi, meccanico e pilota, era proprio di Budrio. O invece è stato il prof di musica, a raccontarvi che l’ocarina è nata qui, grazie a Giuseppe Donati. Ah sì, poi avete letto che è di Budrio quell’attore bello e famoso, Stefano Accorsi, quello che du gust is megl che uan e poi ha fatto una gran carriera. Ma no, certo, avete sentito parlare di Budrio per quella brutta storia di Igor il russo, che poi non si chiama Igor e non è neanche russo.
Noi invece siamo andati a Budrio, pochi chilometri da Bologna, comunque abbastanza perché l’aria abbia sempre quel profumo unico di nebbia anche quando non c’è, per vedere una distesa infinita di biciclette. Vecchie, vecchissime, uniche, perfette. Le colleziona Antonio Alberoni, che ne ha messe insieme trecento, e settantaquattro sono Bianchi da corsa.
Adesso Antonio ha settantacinque anni, il mondo lo gira meno di prima, quando faceva il rappresentante di scarpe per tutto il nord Europa, ma tutte le mattine scende in pigiama fra le sue biciclette, con una tazza di cioccolata calda, e quello è il suo modo di godersi la vita, di sognare e di ricordare.
Per esempio suo nonno Arturo, che alla fine del 1800 portò a Budrio le prime biciclette. Aveva diciotto anni e lavorava da falegname nella bottega del suo babbo quando decise di andare alla fiera di Milano a vedere da vicino una meraviglia di cui aveva letto sul giornale. Bicicletto, si chiamava. Arturo incontrò Edoardo Bianchi, che era già una celebrità, e capì che non poteva permettersi uno dei suoi gioielli. Pensò allora di comprare i componenti in Inghilterra e di costruirselo da solo, il bicicletto. Ci vollero molte sterline d’oro e parecchio tempo, ma un bel giorno la gente di Budrio vide quel ragazzo cavalcare quello strano mezzo per le strade.
Nel 1903 Arturo coronò il suo sogno, e aprì in via Saffi la sua bottega di velocipedi. Nel 1920 era già diventata una cosa grande: dalla officina (in cui lavoravano dieci fattorini) e dal negozio - che aveva l’esclusiva della Dei e della Legnano - Arturo passò al commercio all’ingrosso di ricambi e a un deposito di cicli. E suo figlio Giuseppe continuò il suo lavoro e la sua passione per altri trent’anni.
Antonio, nipote di Arturo e figlio di Giuseppe, ha scelto un altro mestiere ma nel sangue aveva la passione di famiglia per le bicicletta, e dal 1970 ha cominciato a cercarle in tutta Europa, e le ha raccolte a casa sua. C’è quella con la ruota davanti grande come una mongolfiera, quella in uso dalla polizia francese completa di sciabola infilata nel manubrio. Quella con un geniale sistema di antifurto, una pallottola che esplode dopo poche centinaia di metri. Un esemplare unico di tandem parallelo - da usare in tre - presentato nel 1938 alla fiera del ciclo e motociclo di Milano dalla Dei. La più vecchia è del 1855, la costruì Pierre Michoux, l’inventore dei pedali, e Antonio l’ha scovata a Parigi, al mercato delle pulci di Porte de Clignancourt, «quando avevo finito di lavorare mi vestivo da poveraccio, per spendere meno e giravo per mercatini, ma quando trovavo quello che cercavo usavo il metodo contadino, tiravo fuori dalla tasca un rotolo di banconote e li convincevo». La sera si trasformava di nuovo, questa volta in gagà: un bel vestito da signore, un borsalino nero in testa, e Parigi era sua, «mi trovavo così bene che la prima volta rimasi là un mese, mia moglie andò dai carabinieri a cercarmi».
Ma la libertà Antonio l’aveva già comprata per poche banconote a Porte de Clignancourt. Con tutte quelle biciclette, gli basta fare un giro nel suo museo privato per ricominciare a sognare.
Alessandra Giardini