Lo hanno battezzato Tour de la Paix, il Giro della Pace. Perché per tre anni, dal marzo 2012 al febbraio 2015, il Mali – nell’Africa sahariana, grande quattro volte l’Italia - è stato teatro di guerra, morte, violenza, fra forze armati e gruppi islamisti, fra Legione straniera e Nazioni Unite, fino alla dichiarazione di indipendenza. E adesso il ciclismo celebra, festeggia, illumina l’inizio di una nuova era.
E’ la settima edizione del Tour du Mali: dall’1 al 5 febbraio, in tutto 765 chilometri in cinque tappe, 49 corridori in nove squadre, tre nazionali malesi, poi Marocco, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Senegal, Guinea e Niger. I corridori, un po’ ambasciatori e un po’ missionari, si misurano da Bamako (la capitale) a Kita, da Bamako a Bougouni, da Koumantou a Sikasso, da Koutiala a Segou, l’ultimo giorno da Bamako a Bamako passando per Sibi con circuito finale. Madrina la “first lady”, Keita Aminata Maiga. Primo sponsor Sotelma-Malitel, compagnia telefonica. Organizzatori il Comitato nazionale olimpico con la Federciclo locale e il Ministero dello Sport. E come regolamento, quello dell’Uci. Inutile cercare, nell’elenco degli iscritti, nomi conosciuti sulle strade europee: il più famoso è Oumar Sangaré, dorsale numero 1, campione maliano.
Stavolta il ciclismo non vuole soltanto premiare il più forte o il più veloce. Stavolta si pedala per il rispetto, la disciplina, la sicurezza: Soriba Cissé, sindaco di Kita, ha invitato la popolazione a collaborare con le forze dell’ordine “contro i banditi e i terroristi”. Stavolta si pedala – se possibile – contro la mortalità infantile (11 per cento), contro l’analfabetismo (71 per cento), contro la bassa speranza di vita (55 anni), contro il colera e l’Aids, perfino contro la siccità. Stavolta si pedala per la pace.
Marco Pastonesi