Non ha nulla di principesco, Princes Street. Si sporge sul Liffey, che ha acque grigie anche d’estate, anche di domenica, anche con il sole. Si affaccia sulla neoclassica Custom House, il Palazzo della Dogana, che ospita il Ministero dell’Ambiente. E’ a due passi dalla centralissima O’Connelly, dove Dublino ha un’aria internazionale, e a due dal Trinity College, dove si aggirano i fantasmi di Samuel Beckett e Oscar Wilde, e a due da Tara Station, con il suo ponte ferroviario, metallurgico, pesante e antico. Ma Princes Street non ha nulla di internazionale, né di collegiale, né di ferroviario.
Princes Street è mattoni e muschio, è senso unico e senso vietato, è operaia e sottoproletaria, è lattine di birra e mozziconi di sigarette, è appartamentini riprodotti in serie, fabbriche ristrutturate in uffici, e un garage dismesso, o abbandonato, o forse soltanto chiuso. Il cancello concede spifferi attraverso cui s’intravvedono avanzi di legni e ferri. E un avanzo di vita.
Era il 4 maggio 1971 quando Shay Elliott, qui, in una delle stanze edificate sopra il garage che apparteneva alla famiglia, morì. Stava maneggiando una Luigi Franchi, calibro 12. Leggera, sensibile, ma malfunzionante. Gli era stata consegnata in premio alla Vuelta del 1963, dopo la vittoria nella tredicesima e terzultima tappa, la Tarragona-Valencia, che era anche la più lunga, 252 km. E se li teneva lì, non solo la pistola Franchi ma anche un fucile, a portata di mano, allertato dai ladri che già due volte erano penetrati nel garage.
Elliott era stato il primo irlandese a vincere una tappa al Giro d’Italia (anzi, il primo vincitore di lingua inglese), il primo irlandese a indossare la maglia gialla al Tour de France (e la portò tre giorni), il primo irlandese a vincere una tappa al Giro, al Tour e alla Vuelta. Era un gregario con licenza di vincere, e vinse 57 volte, ma non era un vincente. Ammesso che esistano morti da vincenti o da perdenti, la sua fu da perdente. La carriera era tramontata, il matrimonio con Marguerite si era logorato, l’investimento in un albergo in Inghilterra era fallito, due settimane prima era morto il padre, che lo aveva riaccolto a Dublino, in Princes Street, South per la precisione, condividendo quel garage. Shay stava a Dublino dal lunedì al venerdì, il sabato e la domenica li passava a Kilmacanogue, 25 km a sud, dove adesso è sepolto, nella chiesetta di Saint Moochonogs.
C’è chi ha speculato sulla morte e ipotizzato il suicidio, ma John Flanagan, autore del magistrale “Shay Elliott – A Sporting Life”, sostiene che la causa fu il malfunzionamento della Franchi: “La sicura si disinnescava nel caso di un improvviso impatto”, e così “la pistola poteva sparare senza premere il grilletto”. In uno straordinario e tragico epilogo, qualche giorno dopo la morte di Shay, il suo cane Kim, uno Springer Spaniel, fu investito e ammazzato proprio a Kilmacanogue mentre attraversava – disorientato, forse distrutto - la strada.
Esploro Princes Street South. Chiedo a un locale – vecchio, zoppo, gentile – se ha mai sentito parlare di Elliott. Sì, certo, Elliott, il corridore. Il garage stava là, c’era una stradina, che adesso è chiusa. Una vecchia storia.
Marco Pastonesi