Dicono che a Buti siano stati fatti tre doni divini: l’aria, l’acqua e l’olio. Ce n’è un quarto: un figlio di quell’aria, di quell’acqua e di quell’olio. Si chiamava Cesare Del Cancia.
Era quel bambino che non stava mai fermo: giocava a rimpiattino, al papa, a zoppetto, a guardia e ladri, rubava la frutta dagli alberi e catturava i ranocchi negli stagni.
Era quel ragazzo che andava la mattina a studiare a scuola e il pomeriggio a lavorare al mulino oppure in una bottega dove si riparava di tutti, dalle macine dei frantoi agli zoccoli dei cavalli, dalle ruote dei carri ai tubolari delle biciclette.
Era quel corridorino che vinceva in volata o per distacco, che si piazzava a cronometro e in pista, che conquistò il titolo toscano dei dilettanti juniores, a quel tempo l’equivalente di un Mondiale giovanile, che si classificò quinto al Mondiale dilettanti del 1935, e che passò professionista – a ventuno anni non ancora compiuti - nel 1936.
Era quel professionista che non ne voleva sapere di fare il gregario (pare che si rifiutò di aiutare il capitano Gepìn Olmo), così mollò la Bianchi e si trasferì alla Ganna, dove invece aveva tutta la libertà che cercava, compresa quella di vincere la Milano-Sanremo del 1937, settanta chilometri di fuga solitaria e, come specificava “La Gazzetta dello Sport”, “indiavolata”.
A “Cesare Del Cancia – lo spavento degli assi” (CLD Libri, 256 pagine, 28 euro), Massimo Pratali ha dedicato un libro ricco e profondo, scavando negli archivi della Biblioteca universitaria di Pisa (di cui conosce labirinti e giacimenti perché lì ha lavorato per 35 anni), ma anche ricevendo fotografie e documenti di famiglia (e preziosa è stata la collaborazione della nipote di Del Cancia, Fernanda), e raccogliendo testimonianze degli amici.
Formidabili quegli anni di corse: cronache e commenti, ordini di arrivo e classifiche generali, ma anche ritratti e interviste, storie e racconti, lettere e canzoni, tesserini e cartoline. Era il ciclismo a metà fra l’eroico e il romantico, quello degli anni Trenta, fatto di strade polverose o infangate, di fatiche contadine e proletarie, di cadute omeriche e voli pindarici, di cotte abissali e distacchi epocali. E i corridori, anche Del Cancia, erano artisti e circensi, avventurieri ed esploratori, sfidavano la miseria, misuravano il destino.
Come quella tappa del Giro di Svizzera del 1937. Del Cancia la vinse due volte: la prima volta in volata davanti allo svizzero Amberg (ma la giuria decretò che, siccome pioveva, per problemi di sicurezza ci sarebbe voluta una finalissima a cronometro), la seconda volta a cronometro (un giro della pista di Losanna), eppure fu dichiarato secondo (perché la giuria invertì il suo tempo con quello di Amberg). Però il caso ebbe un effetto positivo, sorprendente, insperato: negli ultimi tre giorni di corsa, alla partenza o all’arrivo, in albergo o per posta, Del Cancia fu ricoperto di regali da chi voleva risarcirlo della vittoria (anzi, delle due vittorie) scippata.
Questo libro (presentato l’altro giorno a Pontedera, oltre all’autore c’erano Paolo Bettini, Giuseppe Pardini, Mauro Simonetti e Franco Vita), è anche un poderoso album di famiglia: da Bartali a Coppi, da Bizzi a Bini, da Torriani a Baldini, da Vigna a Gimondi, dal Vigorelli al Turchino, dal Terminillo alle Dolomiti, dal Giro d’Italia al Giro dell’Emilia, dalla “Gazzetta dello Sport” al “Littoriale”, dal “Lavoro” alla “Illustrazione italiana sportiva”, dai pantaloni alla zuava ai fez, dalle fontanelle d’acqua ai passaggi a livello. E Del Cancia che sorride, che digrigna, che posa, che mira, che sfreccia, che spara. Impomatato, incrostato, impelagato, impetuoso, impettito.
Marco Pastonesi