Quelli di Froome frullano, di Quintana ombreggiano, di Aru inseguono, anche un sogno.
Quelli di Pinot si piantano, di Cummings fuggono, di Dumoulin risorgono, anche se per un solo giorno.
Quelli di Tiralongo tirano, di Sabatini trenano, di Bono trainano.
Quelli di Sagan sono ricchi, di Matthews furbi. E quelli di Cavendish sfrecciano.
E quelli di Caruso contano, anche alla rovescia.
Il Tour de France alla tv, sul computer, su Facebook, su Internet. In diretta, in registrata, in streaming. Per sms, per whatsapp. A sprazzi, a schegge, a immagini, a visioni. Per telepatia, per simpatia. Cliccando, per la diretta, “live”.
Mi concentro e mi colpiscono le gambe, anzi, i polpacci, quelli che Alfredo Binda chiamava, quelli che i lombardi in bicicletta chiamano ancora, “i garun”, i garretti. Che non sono Pat Garrett e Billy the Kid.
Nibali, per esempio. I garretti di Nibali sono rami nodosi, nervosi, non secchi ma asciutti, prosciugati, scolpiti, definiti, sudisti e sudati, antichi. Ne vedi le vene, ne intravvedi le ossa. I muscoli che si attaccano alle ginocchia, che si allungano al tallone. Neri di sole, fradici di sudore, picchiati dalla grandine, ustionati dall’asfalto.
I polpacci dei corridori sono le mani dei pianisti, cioè uno strumento di lavoro, e i massaggiatori li accordano. Ma sono anche i nasi dei sommelier, le spalle dei giavellottisti, gli occhi degli arcieri. Una volta i polpacci dei corridori si dividevano in polpacci da muratori e da contadini. Adesso sono tutti polpacci da professionisti.
I polpacci non spingono e non tirano soltanto, ma respirano. E a volte borbottano, stridono, fremono, frullano come per Froome e risorgono come per Dumoulin.
C’è polpa, in questo Tour, e molti polpacci.
Marco Pastonesi