Una bicicletta cecoslovacca, fabbricata prima dell’ultima guerra, con i freni ad asta e i parafanghi cromati come i paraurti di una Buick. Splendida. C’era un solo piccolo problema: Kamo non aveva alcuna intenzione di salirci sopra. E chiedergli perché sarebbe stato inutile. Non era più un marmocchio, non stava facendo i capricci, non voleva dare fastidio a nessuno. “Punto”. Ecco che cosa diceva: “Punto”. Ed era un punto e a capo, un punto e basta, un punto e fine del discorso.
Ma una bicicletta è molto più di una bicicletta, soprattutto se è cecoslovacca, possiede i freni ad asta e vanta i parafanghi cromati. Tant’è vero che, quando gli amici non se lo aspettavano più, in fondo all’orizzonte un ciclista - Kamo - uscì dalla strada sterrata, si lanciò attraverso i campi, si districò fra le rocce, e saltò le gobbe del terreno come un cavallo da rodeo, mentre i parafanghi scintillavano ai raggi del sole e sembravano trasmettere messaggi in codice.
Daniel Pennac ha dedicato una trilogia alle avventure di Kamo, e nel terzo volume - “L’evasione di Kamo” (1992, Einaudi ragazzi), emerso magicamente nello scaffale di una biblioteca - la protagonista è proprio questa bicicletta eroica, che aveva fatto la Resistenza, era sfuggita a un’imboscata dei nazisti, portava i segni di due proiettili, uno aveva perforato il telaio, l’altro aveva bucato il parafango posteriore. E pensare che l’iniziale riluttanza di Kamo a cavalcarla sembrava dovuta alla preferenza per la nuovissima bici di un suo amico, leggera come una gazzella e dotata di infinite moltipliche.
C’è anche Pennac in gruppo. Lo scrittore francese, quello della saga della famiglia Malaussène, stavolta pedala a parole, impenna a pensieri, vola a dialoghi. La bici nera ha “la criniera fiammeggiante”, lo spettacolo è corredato da “il cigolio delle molle, i gemiti della sella, il tintinnio del campanello”, quando Kamo gode ha “le braccia aperte fluttuanti nello spazio, come qualcuno che abbia finalmente scoperto il segreto del volo degli uccelli”, quando pedala per le strade di Parigi “si sarebbe potuto credere che fossimo all’arrivo del Tour de France”. Finché una notte buia, la strada ripida, un’auto nera…
Marco Pastonesi