Ha gli occhiali da professore, il volto da generale, le gambe da cowboy, l’accento francese, è il commissario della nazionale italiana di rugby e fa l’ambasciatore dell’ovale, ma ha la passione per la bicicletta.
Jacques Brunel è nato - 61 anni fa - dove il ciclismo è geografia ma anche storia, è storia ma anche storie, è sport ma anche religione, è salite prima che discese, è Tour de France almeno una volta l’anno. Pirenei, anzi, Midi-Pirenei. Auch. Che scritto così, suona come la sentenza poco convinta di un capo indiano, e invece è una cittadina che gioca a rugby e respira ciclismo.
L’anno era il 1991, la tappa quella da Jaca a Val-Louron, 232 chilometri e in mezzo anche il Tourmalet, Brunel conquista un posto in una delle rare macchine a disposizione dei vip, e sulla “strada cattiva” assiste al crollo di Greg LeMond, alla vittoria di Claudio Chiappucci, soprattutto all’investitura di Miguel Indurain, che quell’anno si guadagna il primo dei suoi cinque Tour de France consecutivi.
Brunel ne rimarrà stupito, impressionato, anche commosso, dalla grandezza di Indurain e dalla fatica di LeMond, impiantatosi su rampe e tornanti, incapace di andare avanti. E ricorderà quel muro di spettatori sulle montagne, dove fino all’ultimo istante sembrerà impossibile, non solo per i “suiveur”, ma per gli stessi corridori riuscire a trovare un varco e penetrare. E quando scava nella memoria, Brunel si riaccende di emozioni e brividi.
Ciclismo e rugby – ha sostenuto Brunel, l’altro giorno alla riunione annuale dell’Old Rugby Piacenza - condividono il senso del sacrificio fino alla sofferenza e perfino al dolore, il valore dell’orgoglio di chi non si rassegna e non si arrende, le storie di uomini e donne anche se impegnati in sfide comunque solitarie, quelle in bici, e di gruppo, di squadra, di famiglia, quelle con l’ovale. Forse ciclismo e rugby condividono anche la stessa passione provinciale, campanilistica, contadina anche quando si sfiora il mare e si scalano le montagne.
Marco Pastonesi