Sta attraversando l’Australia. In bicicletta. Da solo. Millecentocinquanta chilometri di niente.
Nicholas Pettinà ha 24 anni, è vicentino di Arzignano, dire dove abiti è più complicato: ufficialmente a Vittorio Veneto, praticamente è senza fissa dimora, nomade più che vagabondo, anche se qualche volta potrebbe sembrare più vagabondo che nomade, più apolide che italiano. Chi ha la passione per il ciclismo, sa che Pettinà è un biker, specialista in mountain bike, campione italiano marathon Under 23, atleta del Gruppo sportivo Forestale. Uno da cross country, da resistenza, da pronti-via, da dorsali e medaglie. Ma adesso, in questi giorni, in questo momento, pedala nel deserto. Lui e la sua bici, lui e le sue sacche, lui e la sua ombra.
La solitudine del deserto, e lo scrive anche Nicholas nel suo diario su Facebook, è falsa. L’altro giorno ha fotografato una di quei pick-up da telefilm, schiantato contro un albero e defunto, abbandonato, spogliato: l’incidente – questo è chiaro – non può essere stato causato dall’eccesso di traffico. E poi sabbia e serpenti, radici e liane, sole e una temperatura che, ben prima di mezzogiorno, diventa già insopportabile. E la strada: che è pista, sentiero, guado, anche asfalto, e qui allora instancabilmente retta, spietatamente diritta. Da Cairns alla punta di Cape York. Millecentocinquanta chilometri tropicali.
Eppure, apparentemente, Nicholas è un tipo normale: studi da istituto magistrale, gusti da “Rocky” a “Mr Bean”, preferenze da “Hobbit” a “Frankenstein”, poi la passione per la bici, anche in maglia azzurra, anche la strada (le Strade Bianche, con la Nazionale, nel 2015), ma soprattutto il fuoristrada. Abituato a saltare da Tregnago ad Alpago, dalla Via dei Berici alla Misquil Bike, dagli Italiani alla Coppa del mondo, sempre più a est, la Mongolia Bike Challenge, secondo per colpa di un errore di percorso nel 2014, primo nel 2015, fino al Crocodile Trophy, lo scorso ottobre, nove tappe, 730 chilometri con 14 mila metri di dislivello, nella giungla, classifica finale quarto, sul podio se non fosse rimasto a piedi per una foratura.
Ma Nicholas non ne ha mai abbastanza. Come quando, dopo la Mongolia Bike Challenge del 2014, volle attraversare la steppa, perse la rotta, fu salvato da una carovana, ospitato in un accampamento, riscaldato attorno a un fuoco, il giorno seguente ripartì fiducioso, ma si ritrovò, accerchiato, in una base militare. O come quando, adesso, si alza alle quattro del mattino e pedala fino alle dieci e mezzo, poi cerca riparo dalla canicola e dai condomini del deserto, altro che solitudine e niente.
Nei “selfie” Pettinà appare spettinato, oltre che magro, tirato, abbronzato, sudato, carico – la bici, ma è sempre lui a spingerla – come un mulo. Il suo forte non devono essere le lingue, se un altro biker segnala e raccomanda Nicholas ai propri amici. Il suo forte è la curiosità, il coraggio, l’istinto, anche quello di sopravvivenza.
A quest’ora Pettinà dovrebbe essere in dirittura – un centinaio di chilometri – d’arrivo. Vai Nicholas, vai che sei solo.
Marco Pastonesi