Ci insegnò che le lacrime possono anche essere di gioia. Ci insegnò che il pianto può anche essere di felicità. Ci insegnò che per vincere bisogna innanzitutto sognare, e che se sognare non serve a vincere, serve almeno a vivere. Tant’è vero che lui era uno di quelli che, senza tema di smentite, poteva dire di aver vissuto: non una, ma due o tre vite, forse anche quattro o cinque. Senza freni in bici, senza freni anche giù dalla bici. A manetta, a tutta, alla morte.
Michele Dancelli è morto. Sembra impossibile, perché Dancelli era uno di quei cognomi, una di quelle facce, uno di quei corridori che non sembrano dover morire mai, come Mick Jagger nel rock, come Tom Sawyer nella letteratura, come Sandokan al cinema o in tv. Proprio alla tv, era un “Processo alla tappa”, Sergio Zavoli invitò Pier Paolo Pasolini, poi però lo fece intervistare da Vittorio Adorni, Pasolini disse “sono venuto qui semplicemente per amore del ciclismo. Però stando qui, come sempre succede, nascono le sorprese, le cose impreviste. Per esempio, ho visto due facce che veramente prenderei in un film: cioè la faccia di Dancelli e la faccia di Taccone”.
Aveva 83 anni, Dancelli, avrebbe potuto averne 38 o 138, l’annuncio della sua morte ci avrebbe colti comunque sorpresi, impreparati, negazionisti. Bresciano di Castenedolo, bresciano nell’accento, nella testa, nell’anima, e i suoi compaesani, tutti i bresciani, lo avevano capito subito. E a Brescia era sorto “il Club dei poveri”, la sede nella bottega di un ciclista, i frequentatori una ventina, i corridori da sostenere tre, ovviamente bresciani: Mario Anni, Davide Boifava e Michele Dancelli. “Il Club dei poveri” si mobilitava per allenamenti e corse, rifornimenti e cene, aperitivi e cicchetti, scommesse e trasferte. In una sola occasione il proprietario della bottega, Pietro Serena, ammiratissimo perché saldava i telai senza ricorrere alle bombole – come Enzo Maiorca nelle immersioni, come Reinhold Messner nelle ascensioni -, partecipò alla scampagnata. Era la Milano-Sanremo del 1970. Proprio quella di Dancelli. Chissà che cosa sarebbe stato della carriera di Dancelli se Serena il portafortuna ci avesse preso gusto. Invece, quella fu la prima e unica volta, amen.
La Milano-Sanremo di Dancelli, come se tutti gli altri 237 corridori non esistessero. “Dancelli – mi ha raccontato Ernesto Colnago – era un istintivo, un impulsivo, faceva cose da pazzi, per esempio questa, mollare gli altri fuggitivi a una vita dall’arrivo. Lui pensava che la compagnia fosse ingombrante, lui giurava che prima o poi qualcuno avrebbe attaccato, tanto valeva che attaccasse prima lui. E così quel giorno di San Giuseppe fece. Successe a un traguardo volante, quello di Loano, 218 chilometri dalla partenza e 70 all’arrivo. Carletto Chiappano, gregario della Molteni, tirò la volata a Dancelli, poi si scansò, smanettò sul cambio, mostrò di avere un problema, o forse finse di averlo, alzò il braccio per chiedere l’intervento dell’ammiraglia e creò il vuoto. Dancelli proseguì, allungò, fuggì. Venti metri di vantaggio, che diventarono 50, che si moltiplicarono a 100. Dietro si studiavano. Ciao peppa. Ricordo Giorgio Albani che urlava a Dancelli di mangiare zucchero, ricordo il commendatore Piero Molteni che si eccitava e che alla fine gli promise ‘se te ghe la fet, te regali el stabiliment’, ricordo me stesso pregare perché Michele non avesse un guaio meccanico o una foratura, e intanto ero pronto a saltare giù dall’ammiraglia come un centometrista dai blocchi di partenza. Anzi, per essere ancora più pronto, mi misi la bicicletta di scorta su una spalla”. Dancelli avrebbe vinto con 1’39” su Karstens, Leman, Zilioli e Godefroot. Diciassette anni dopo l’ultima vittoria italiana. La Milano-Sanremo sembrava stregata. Dancelli fu più potente dei malefici e dei sortilegi.
Dancelli era la meglio gioventù. Settimo di sette figli (ottavo di otto contando un fratellino morto in fasce), orfano di padre (morì di polmonite quando Michele aveva un anno), il pronti-via a Castenedolo fra castagni e viti, furti ed eroismi: nel 1943 le campane di bronzo della parrocchia erano state smontate dai tedeschi per finire in fonderia, la notte seguente furono riportate in paese e nascoste fino alla fine della guerra. Muratore a 14 anni, la prima bici – una Condor azzurra – per andare e tornare dal lavoro, 10 ore di lavoro poi ad allenarsi fino a notte fonda, il primo Giro d’Italia – da spettatore – a 14 anni, quando udì il clacson della carovana, abbandonò in fretta e furia per qualche minuto cazzuola e carriola per correre a bordo strada, la prima corsa a 16 anni, la prima vittoria a 19 anni nei campionati italiani Csi. E da subito, da sempre, quel modo di correre anarchico, da attaccante, che ci avrebbe fatto innamorare di lui. Dodici anni di professionismo dal 1963 al 1974, 73 vittorie, maglie rosa, tricolori e azzurre, con due bronzi mondiali. Poteva vincerle, e le ha vinte, in tutti i modi: in volata e in fuga, in salita e in discesa, in linea e a tappe, in classiche e in circuiti. Era una mina vagante, un terno al lotto, un asso nella manica. Era Giamburrasca, era Pierino la peste, era Masaniello. Era un jolly, un garibaldino, un cavallo pazzo.
Era anche una testa matta. Su e giù dalla bici. 1966, sgambata nell’entroterra ligure, lui e Gianni Motta, un locale con la musica, una bionda che ci stava, con tutti e due: “Felici per quell’incontro intimo inatteso, ci congediamo da lei con la promessa di rivederci magari quanto prima – raccontava Dancelli a Paolo Venturini nel libro “Michele Dancelli - L’asso di fiori” -. Facciamo per allontanarci, quando ci ferma un ragazzo del paese che ha osservato la scena. ‘Voi due siete matti ad andare con quella ragazza, state attenti, perché è malata’”. Finì che Michele e Gianni corsero in albergo “a fare gargarismi e disinfezioni della bocca con l’alcol denaturato”.
L’imprevedibilità di Dancelli, in corsa e fuori corsa, era diventata prevedibile e proverbiale. Riuscì addirittura a dimenticarsi di una promessa al papa. Era Paolo VI. Accadde in una udienza privata nel 1968. Giovan Battista Montini, bresciano, chiese a Dancelli un favore: “Lei che gira spesso per la provincia di Brescia in bicicletta, quando passa dalle parti di Pezzoro, in Valtrompia, porti i miei cari saluti alla locanda Dancelli dove mi recavo talvolta da ragazzo, durante l’estate, con mio padre quando da San Vigilio risalivamo la valle per andare sul Monte Guglielmo”. Michele lo fece fuori tempo massimo, 30 anni più tardi, complice un pranzo a base di spiedo tradizionale.
Era fatto alla sua maniera, Dancelli. Quella volta in Belgio, per la Parigi-Lussemburgo, Salvarani e Molteni nello stesso albergo, ma mentre Felice Gimondi e i suoi gregari si tenevano a stecchetto, Michele e i suoi compagni andavano fuori a cena per un coniglio arrosto. Risultato: la Molteni sfiorò la vittoria e la Salvarani finì ultima. “Un anno Gimondi mi offrì un bell’ingaggio per seguirlo alla sua corte, ma memore di quella serata in Belgio, cortesemente rifiutai”. Erano altre le lezioni: quella volta che Jacques Anquetil gli pulì la bicicletta perché Dancelli, caduto, si era rovinato le mani, e quella volta che Eddy Merckx andò a riprendere chi era andato in fuga approfittando di una caduta nel gruppo e poi, non soddisfatto, continuò l’attacco tirandogli il collo.
Dancelli ispirava non solo “suiveur” appassionati e donne sensibili, ma anche giornalisti e scrittori. Bruno Raschi, “il Divino”, ne ritrasse “il viso esangue illuminato dalla rabbia; il cappellino buttato in un campo di garofani quando era diventato un cencio di sudore; i muscoli delle gambe asciutte, scolpiti dallo sforzo come quelli di un Donatello; le sue lacrime, lente, quasi a scandire pedalate di gloria”. Gian Paolo Ormezzano lo musicò in “din, don, Dan...celli”. Gianni Mura lo definì “un sognatore nomade”. Gino Sala lo elesse “ribelle”.
“Adesso i critici mi daranno la patente di campione?”, domandò Dancelli sul podio di quella Milano-Sanremo 1970. Ma certo, Michele. Però torna subito indietro a bere un’aranciata con noi. Lo scherzo è bello quando dura poco.