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BRANCA. «I MIEI 40 ANNI DA "DOTTORE DEL GIRO" COL PROFESSOR TREDICI»
di Nicolò Vallone | 26/05/2023 | 08:10

Come immagine profilo di Whatsapp ha un foglio con un avviso: "dal 4 al 26 maggio il Dott. sarà sostituito da..."

Questo perché il dottore in questione, che ha il proprio studio a Buscate, nell'Altomilanese, è Massimo Branca. E per il quarantesimo anno, ininterrottamente dal 1984, in quelle tre settimane di maggio lui è impegnato al Giro d'Italia: è la colonna portante dell'equipe del professor Giovanni Tredici, che negli anni Ottanta prese il posto di quella che fin lì si chiama Equipe Enervit. Entrambi questi medici, insieme alla loro squadra poco pubblicizzata e tanto essenziale, sono ancora saldamente al seguito del Giro. E ieri sera, alla vigilia del tappone delle Tre Cime, abbiamo trascorso dieci minuti al telefono col dott. Branca.

Come entrò nel ciclismo?

«Devo ringraziare due persone. La prima è Beppe Saronni, che abitava vicinissimo a me: nell'84 e nell'85, appena laureato, feci il medico di squadra della Del Tongo. Mi resi conto però che era un'attività troppo impegnativa: seguire un team tutto l'anno non ti permetteva di fare molto altro. Preferivo dedicarmi a un'attività quotidiana di base e fare altro "a latere". Nell'86, e qui entra in scena la seconda persona che devo ringraziare, il professor Tredici mi aprì la possibilità ideale: quella di entrare nel gruppo medico al seguito delle gare organizzate da RCS, che occupavano periodi limitati di tempo.»

Quindi, 40 Giri di cui due da medico della Del Tongo e 38 da medico di gara. Com'è cambiato il vostro lavoro in tutti questi decenni?

«Basti dire innanzitutto che quando iniziai eravamo nove persone, ora siamo ventinove. Avevamo un'auto medica e due ambulanze, oggi due auto mediche con rianimatore e quattro ambulanze di cui due centri di rianimazione mobili. Dieci anni fa, inoltre, fummo la prima corsa a tappe al mondo a dotarsi di un centro radiologico mobile, che ci permette di gestire in loco persino fratture non complesse: facciamo la lastra, la mandiamo in ospedale a Legnano e in pochi minuti abbiamo l'esito; se non c'è bisogno di operazioni, abbiamo tutori e ciò che serve. Inoltre oggi c'è l'ambulatorio mobile vicino ai parcheggi dei bus per medicazioni varie. Tutto per evitare trasferimenti in ospedale o pronto soccorso finché è possibile.»

Un'evoluzione passata in gran parte dalle idee e dagli input del prof. Tredici

«Lui è stato il "miglioratore" e l'innovatore di tutte le situazioni mediche al Giro. Diverse sue idee sono state copiate dal Tour de France: ad esempio la seconda auto medica, che parte prima del via della tappa per stare sulla fuga. Così come alcune cose che hanno al Tour, noi volutamente non le abbiamo. Ad esempio la moto fissa col medico: secondo noi non serve, perché in caso di incidente se anche arriva lì subito il medico, senza un certo tipo di materiale puoi farci ben poco. Stesso discorso per l'elicottero: molto scenografico, ma non è mica facile trovare sempre un punto dove atterrare rapidamente. Un altro tasto su cui il professore ha sempre battuto è la figura dei rianimatori: fortunatamente è la figura meno utilizzata, ma è indispensabile averne a disposizione per quelle rare volte in cui si rende necessaria e bisogna agire con estrema tempestività. Ecco, nei primi Giri i rianimatori non c'erano.»

Una di quelle rare volte in cui sono dovuti entrare in azione purtroppo fu il 9 maggio 2011

«La tragedia di Wouter Weylandt: facemmo tutto il necessario, purtroppo non servì a nulla e il prof. Tredici dovette annunciare la morte del corridore belga.»

Un altro momento delicato e drammatico, soprattutto col senno di poi, fu Madonna di Campiglio nel 1999

«In quel caso non avevamo alcun potere d'intervento. Il mio rammarico è che, non essendo stato trovato positivo al doping bensì con l'ematocrito alto, dopo quindici giorni sarebbe potuto tornare a correre come fecero altri.»

Venendo a tempi più recenti, com'è stato avere a che fare col Covid?

«Ricordo bene quel 2020: una tragedia! C'era il personale del Centro Diagnostico Italiano che fece uno sforzo enorme: erano attrezzati coi tamponi sia rapidi che molecolari. Di questi ultimi ne facevano 700 nei giorni di riposo: mandavano a Milano e a notte fonda arrivavano tutti gli esiti.»

E della gestione del virus nel ciclismo del 2023 cosa pensa?

«Ci tengo a chiarire un grosso equivoco che si è creato nei giorni dei continui ritiri causa-covid in questo Giro. Noi come medici di corsa non cacciamo nessuno perché positivo, e neppure l'organizzazione: è una scelta delle squadre e dei loro staff medici! Non siamo più in pandemia, UCI e RCS non pongono alcun limite, restrizione o obbligo in materia di covid: se sei positivo, valutano i dottori del team in base anche ai sintomi e ai criteri che ritengono opportuni. L'anno scorso ancora c'era obbligo di tamponi in ingresso, nei giorni di riposo e al sorgere di sintomi: adesso nulla di tutto questo. Se sei positivo ma stai bene, parti. Chi si è ritirato col covid, evidentemente non stava bene.»

Facciamo un paio di esempi pratici di cadute di questo Giro: il patatrac di Salerno e la caduta di Geoghegan Hart verso Tortona

«La prima è stata più spettacolare che grave: ha coinvolto tanti corridori ed è stata appariscente, ma come lesioni non è successo nulla di eclatante. Abbiamo gestito tutto noi, qualche punto di sutura e alcune lastre che non hanno evidenziato conseguenze gravi per nessuno. L'inglese della Ineos invece si è rotto il femore ed è stato portato nell'ospedale più attrezzato: tramite il 118 non l'abbiamo portato a Tortona, bensì a Sampierdarena dove è stato operato.»

Passiamo a situazioni piacevoli: qual è stato il suo/vostro intervento di cui va più orgoglioso?

«Non le cito un episodio, ma un fatto che si protrae da quarant'anni: constatare come i corridosi si fidino sempre e totalmente di noi, rivolgendosi a noi anche per necessità banali. Quello è davvero gratificante.»

In così tanto tempo, è pure diventato amico di qualche corridore?

«Sì, con alcuni ho mantenuto ottimi rapporti anche dopo la loro carriera. Proprio l'altro giorno qui al Giro ho salutato con affetto il belga Rudy Pevenage, che correva quarant'anni fa.»

Lei ha lavorato pure nel calcio: differenze col ciclismo?

«Ho fatto per vent'anni il medico del Legnano in Serie C: tutto un altro mondo. La verità è che i ciclisti non sono esseri umani: hanno un limite di sopportazione impressionante, che non c'entra nulla. Ho visto corridori abrasi che non dormivano per il dolore ma la mattina dopo partivano lo stesso. Ricordo Niklas Axelsson cadere sul Mortirolo, riportare diverse fratture e portare a termine la tappa. Non è un luogo comune, c'è un abisso coi calciatori.»

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