Enrique Peñalosa, dal primo gennaio 2015 sindaco di Bogotá, la capitale della Colombia, 2640 metri di altitudine e 8 milioni di abitanti, ha fatto costruire centinaia di chilometri di piste ciclabili, perché le ritiene fondamentali per l’idea di uguaglianza. “Sono ‘giuste’, proprio come i marciapiedi – sostiene -. Sono un potente simbolo di democrazia. Dimostrano che il cittadino con una bici da 30 dollari è altrettanto importante di quello con un’auto da 30 mila”.
Elizabeth Whitaker, autrice statunitense dello studio “The Bicycle Makes the Eyes Smile” (la bici fa sorridere gli occhi), ha seguito un gruppo di ciclisti emiliani, romagnoli e toscani che percorrevano 80 chilometri, o più, diverse volte la settimana. Fra loro anche Cesare, ex insegnante, poi pittore e poeta, che si vanta di non essersi mai controllato la pressione, perché l’unica pressione che gli interessa è quella delle gomme: “Vado in bici perché è una passione, perché è un’abitudine, un’abitudine che si è affezionata a me”. Stessa strada, per anni, fino a diventare ispirazione per i versi che compone e i quadri che dipinge. Il suo, spiega Cesare, è “un turismo al centimetro”.
Enrique Peñalosa e Cesare sono due di quei “Noi ciclisti salveremo il mondo”, il libro-saggio che Peter Walker, inglese, giornalista e blogger del “Guardian”, ha dedicato alla più silenziosa, pulita, sana rivoluzione culturale, fisica e sociale (Sperling & Kupfer, 252 pagine, 17,90 euro). Il titolo ricorda “La bicicletta che salverà il mondo” di Daniele Scaglione (Infinito Edizioni, del 2010), 10 racconti di storie di vita africana, però qui il protagonista non è più il mezzo ma chi lo usa, chi lo sceglie, chi lo adotta, chi lo abita, chi lo respira, chi lo vive. E qui c’è altro: qui c’è il rapporto fra bicicletta e salute, il problema della sicurezza stradale, l’aspetto della giustizia sociale sulle due ruote umane, l’interesse delle aziende verso la civiltà a pedali, qui si scrive anche di pregiudizi e molestie, ricerche e statistiche, scadenze e programmi, domande e risposte, alberi e caschi, esperienze e iniziative. Qui ce n’è di aprirsi la testa, spalancare la mente, gonfiare il cuore.
La bici fa stare meglio di gambe e cuore, testa e anima, aiuta a rimanere dentro nel tempo cronologico e nel tempo atmosferico, regala inspirazione e ispirazione, è perfetta per esplorare il territorio anche urbano, e possiede la magia di donare sorrisi e complicità, se non amicizie e amori. Nell’epilogo, Walker (curioso cognome – significa “camminatore” – per chi ha scelto di fare il pedalatore) dà la soluzione al conflitto fra auto e bici, che è la contrapposizione fra due modi e due mondi. Oslo che ha deciso di bandire i veicoli a motore in centro, Stoccolma che non ha ancora deciso ma che probabilmente lo farà, Helsinki che sta preparando un’unica app per coordinare bike sharing, auto automatiche, autobus e altri mezzi pubblici, il responsabile della mobilità sostenibile a Lione che sostiene che “l’auto diventerà un accessorio dello smartphone”, l’ex sindaco di Londra Boris Johnson che si è detto orgoglioso di avere raddoppiato l’uso della bici nei suoi otto anni di mandato, aggiungendo che la sua speranza per il futuro è che l’attuale 3 per cento circa degli spostamenti in bici salga al 20 (“Nel 1904 eravamo al 20. Che razza di conservatore sei, se non riesci a riportare le lancette al 1904?”), l’attuale direttore esecutivo dei trasporti alternativi (lui si definisce “umanista urbano”) a New York Paul Steely White che ipotizza come fra 15 o 20 anni prendere la macchina per andare in centro sarà come fumare nei ristoranti. Impossibile.
E invece è, o sarà, possibile che tutti – come predicano i soci di “Cycling Without Age” (in bici senza età), ente no profit danese - abbiano il diritto al vento fra i capelli. Anche tutti quelli che i capelli li hanno perduti. E ovviamente anche tutti quelli che indossano il casco.
Marco Pastonesi