Sosteneva che le persone fossero come le biciclette: capaci di mantenere l’equilibrio soltanto con il movimento.
Albert Einstein: quello con i capelli arruffati e la lingua di fuori, la giacca troppo larga e i pantaloni troppo corti, che non si riconosceva alcun talento se non la curiosità, che si attribuiva solo la cocciutaggine di un mulo e il fiuto di un segugio, che non si preoccupava mai del futuro perché sapeva che arrivava fin troppo presto, ma che nel futuro abitava prima di tutti, perché fu lui a elaborare il principio della relatività. Cioè: la grandezza dipende dallo spazio in cui è misurata. E questa teoria, ripeteva, “mi è venuta in mente mentre andavo in bicicletta”
.
Basterebbe questo per fare di “Einstein e l’arte di andare in bicicletta” (Totem, 156 pagine, 9,90 euro) il proprio vangelo quotidiano: una pagina da leggere ogni mattina, dopo avere guardato il cielo, prima di avere bevuto un caffè. Il saggio dell’australiano Ben Irvine, scrittore e blogger, attivista e ricercatore universitario in Storia e Filosofia della scienza, comincia da Einstein e risale alla storia della bicicletta e al mondo del ciclismo per spiegare il concetto e la pratica della “mindfulness”, la consapevolezza di sé, che - tanto per cominciare - ci aiuta, se non a essere felici, almeno a non essere infelici.
Einstein era un ebreo e un ribelle, “un socialista che lottava per le libertà”, “un solitario innamorato dell’umanità”, “un agnostico che vedeva la mano di Dio nell’universo”, e grazie anche al pedalare riuscì a trovare l’equilibrio fra locale e globale, individuale e sociale, creativo e pratico. Da piccolo costruiva castelli di carte alti 14 piani. Quando nacque la sorellina Maria, la osservò, poi commentò: “Graziosa. Ma dove sono le sue ruote?”. Da neolaureato, trovò un impiego all’Ufficio brevetti, e lui stesso si dedicò a qualche invenzione: un frigorifero silenzioso, giocattoli costruiti con scatole di fiammiferi e spago. C’è una foto che lo ritrae mentre pedala in un cortile: spettinato, solare, sorridente. Felice.
La bicicletta, scrive Irvine, è “la macchina magica capace di fondere meditazione e movimento, curiosità e velocità, ‘mindfulness’ e manubrio”. Non solo: “Bastano poche settimane di giri in bicicletta per accedere a un grado di consapevolezza che ai monaci buddisti richiede decenni di abnegazione, e che il grande Einstein mise in pratica senza sforzo: una vita meditativa”. E ancora: “Non c’è da stupirsi che la bicicletta sia spesso definita la migliore invenzione della storia”. Così: “Come la bici può trarre il meglio da una persona, allo stesso modo la ‘mindfulness’ trae il meglio dalla bici”.
Irvine, che abita a Londra e si occupa anche dei londinesi in bicicletta nel progetto London Cycle Map Campaign, ne è convinto: “In bicicletta recuperiamo il nostro equilibrio, imparando a non eccedere a destra o a sinistra, in avanti o indietro. Ma soprattutto ritroviamo la felicità, godendo appieno i benefici di una filosofia organica e integrata. Sperimentiamo la magica gioia della curiosità”. Ecco: “Andando in bici scopriamo ciò che Einstein ha saputo fino alla fine: qualunque cosa la vita abbia in serbo per noi, va tutto bene”. E se non è proprio così, è comunque bello immaginarlo.
Marco Pastonesi