Li aspettava, poi li inseguiva, li succhiava, li saltava, li staccava, li batteva. Il bello è che loro erano su bici da corsa, lui su una Graziella. Stupiti, sorpresi, forse anche un po’ seccati, un giorno gli proposero di correre. Lui non chiedeva altro.
Lui, Antonio Bramucci. Cugino di quel Giovanni Bramucci bronzo olimpico e mondiale nel quartetto della cento chilometri nel 1968 e poi tre anni, dal 1969 al 1971, da professionista.
Anche lui di Civitavecchia, anche lui innamorato della bicicletta e appassionato di ciclismo, ma due anni di più. Ne aveva 28 quando nel 1972 decise di fare fagotto, prese Maria e i loro tre figli, salì su una nave, Napoli-Messina-Santa Cruz-Città del Capo-Fremantle-Melbourne, 30 giorni da emigranti ma goduti come quel viaggio di nozze che, causa povertà, non era mai stato fatto. E poi l’Australia.
Il viaggio: “Diciassettemilacinquecento lire per ogni adulto, i figli gratis, a condizione di rimanere lì almeno due anni”. La nave: “Il nostro posto era nella stiva. Meglio, perché lì non si sentiva quando la nave ballava per le onde”. L’accoglienza: “Cinquanta dollari la settimana per imparare l’inglese, e chi li aveva mai visti tutti quei soldi?”. La casa: “Temevo fosse una baracca, invece era una villetta, con luce e riscaldamento. Ci dicemmo: e chi si muove più da qua?”. Il lavoro: “In un’industria di gomme. Dodici ore al giorno, poi però ci aggiungevo gli straordinari e altri lavoretti per guadagnare più soldi e pagare i mutui”. La carriera: “Un giorno mi dimenticai di chiudere un rubinetto. La temperatura salì in maniera incontrollata. Venni chiamato in direzione. Temevo il licenziamento. Loro mi parlavano e io non capivo nulla, rassegnato, finché alla parola ‘Pirelli’ dissi di sì. Mi promossero caporeparto. Era successo che proprio grazie alla mia dimenticanza, avevo scoperto un sistema per migliorare la produzione. E quel sì alla parola ‘Pirelli’ autocertificava un mio, inesistente, passato da tecnico specializzato in Italia”.
Nel ciclismo, Antonio è diventato Tony: “Finito di lavorare, cominciavo ad allenarmi. La prima corsa a handicap: i meno titolati partono per primi, i professionisti per ultimi. Pronti, via, a tutta. Arrivai terzo, ma con il sangue in bocca. Campionati australiani veterani: secondo, terzo, quarto, sempre nei primi cinque. Le vittorie nei criterium. E i premi, si rimediava di tutto. Quella volta che vinsi, ma fui squalificato, perché per la gioia Maria era entrata sul percorso in macchina. Quella volta che, 265 chilometri di corsa, presi tutti i gruppi davanti, ma finii il mangiare e il bere, rimasi con i primi, arrivai pedalando con le mani e con i piedi, non riuscivo a scendere dalla bici, le gambe mi si piegavano, avevo perso otto chili. E la volta dopo che, per paura di un’altra cotta, partii carico di banane e panini come se dovessi stare un mese nel deserto. E quella volta che, in volata contro mio figlio Marco, lo buttai sull’erba. Perché quando ho il numero sulla schiena, non guardo in faccia nessuno”.
Tony e la sua Maria (“Quando ci sposammo, io avevo 20 anni, lei 14, facevamo gli stracciaroli”), Tony e la famiglia (“Fra figli, nipoti e bisnipoti, una comunità di 20. E a chi mi dice quanti!, rispondo che siamo venuti per popolare l’Australia”), Tony e l’italiano (“In casa è la lingua ufficiale, anche il gatto deve parlare italiano”), Tony e gli amici (“Quelli di Civitavecchia, quelli della squadra ciclistica Sambuca Molinari, quelli di sempre”), Tony e i sambuchini (“Me li davano per distribuirli alla partenza, invece me li tenevo io, poi mi chiedevano come fosse andata, rispondevo che erano andati a ruba”), Tony e la vita (“Sono già morto due volte, la prima volta non ho respirato per 12 minuti, la seconda per cinque, all’ospedale mi chiamavano Lazzaro”), Tony e la bici (“Una Scott a Melbourne e un’altra a Civitavecchia, maglia della Scaccia, 300-350 chilometri la settimana. Quando non mi vedrete più in giro, vorrà dire che sarò morto sul serio”). Tony, forever.
Marco Pastonesi