Tour de France 1989. Sabato 1° luglio. Cronoprologo, 7,8 chilometri, a Città di Lussemburgo. Perico – il soprannome di Pedro Delgado: significa “Pappagallo” – è il detentore del titolo, indossa la maglia gialla con il dorsale numero 1, e da favorito, con il francese Laurent Fignon e lo statunitense Greg LeMond, mette in palio il suo regno. Colazione, ricognizione, pranzo leggero, poi di nuovo sul circuito, preparazione, riscaldamento, una puntata al punto di partenza anche per far controllare la bicicletta ai commissari. Mancano 20 minuti al suo pronti-via. Ne approfitta per un ultimo giretto, posare per foto-ricordo, regalare qualche autografo, distrarsi un attimo. Ma non è un attimo. E’ molto di più. E quando torna alla pedana della partenza, tutti lo stanno cercando, con ansia: sono già passati due e minuti e mezzo dall’orario previsto. Perico si lancia. E, lui scalatore, stabilirà il sorprendente tempo di 9 minuti e 28 secondi, 14 più del vincitore, l’olandese Erik Breukink, e 8 più dell’irlandese Sean Kelly, Fignon e LeMond. Ma con la zavorra dei 2 minuti e 40 secondi con cui ha cominciato la sua corsa, Perico risulta centonovantottesimo e ultimo nell’ordine di arrivo, a 2 minuti e 54 secondi da Breukink. E se si considera che il giorno dopo, nella cronosquadre di 46 chilometri, la sua squadra (Reynolds) arriva ultima pagando un pedaggio di 4 minuti e 32 da quella di Fignon (SuperU) e di 3 minuti e 41 da quella di LeMond (Adr), il suo Tour è, se non finito, gravemente compromesso. La sua rimonta è fantastica, ma si ferma al terzo posto, a 3’34” da LeMond e a 3’26” da Fignon. Come dire che, senza quel disastro al cronoprologo, il Pappagallo avrebbe cantato vittoria.
Disastri, fallimenti. Infortuni, incidenti. Crisi, cotte. Papere, autogol. Lo sport vive anche di giornate storte, momenti negativi, partite stregate, circostanze letali. “Sliding doors”, porte scorrevoli, ma che si chiudono proprio quando ci sei in mezzo.
Il ciclismo, forse più di tutti, sembra collezionare storie di passaggi a livelli chiusi, errori di percorso, scorciatoie, traini e altre diavolerie. Ma non è così. Il pugilato è un ring di disavventure: quel ghanese, Clement Quartey, che alla dichiarazione del verdetto per l’oro dei pesi welter jr ai Giochi del Commonwealth 1962 è così sorpreso di avere vinto che crolla al tappeto, svenuto; quell’irlandese, Jack Doyle, che si allunga per un colpo, manca l’avversario, Eddie Thompson, sullo slancio finisce oltre le corde, precipita giù dal ring e finisce k.o.; quell’africano della Sierra Leone, nonché rugbista nei Blues di Oxford, John Coker, che ai Giochi del Commonwealth 1966 viene squalificato prima dell’incontro perché non è riuscito a trovare un paio di guantoni adatti alle sue mani, gigantesche; quel match, Jack Dempsey-Johnny Reagan, il 13 dicembre 1887, organizzato a New York, anzi, Long Island, anzi, sulla spiaggia, che a metà viene interrotto per colpa dell’alta marea che invade il ring e riprende più tardi, a qualche chilometro di distanza, e in un luogo più asciutto; e quell’arbitro, Ruby Goldstein, che a forza di dividere i due sfidanti al titolo mondiale dei mediomassimi nel giugno 1952, Ray “Sugar” Robinson e Joey Maxim, alla fine del decimo round cede esausto e si dichiara fuori combattimento, prima del limite.
Geoff Tibballs ha raccolto in “Great Sporting Failures” (CollinsWillow) un florilegio di casi incredibilmente sfortunati. Quel primo test di cricket fra Sri Lanka-Young England del 1987 interrotto al Colombo Cricket Club per l’invasione di un iguana, quel campionato sudafricano di atletica sulle 10 miglia nel 1933 in cui fa così caldo che nessuno dei partenti arriva al traguardo, quel pattinatore italiano – Guido Caroli – che da tedoforo alle Olimpiadi invernali di Cortina nel 1956 cade mentre porta la fiaccola…
Marco Pastonesi