Sono qui che aspetto Quintana, chiudo gli occhi e penso a Cañardo. Mariano Lacasta Cañardo: navarro di Olite, secondo gli spagnoli, o di Erriberri, secondo i baschi, una quarantina di chilometri da Pamplona, sul Cammino di Santiago solo a costo di una deviazione, ma il Palazzo Reale e il vino rosso – giurano – valgono l’allungatoia. Orfano del papà, guardia civile, a sette anni, e della madre, a 13, Cañardo si trasferì da una sorella, a Barcellona. Fece il muratore e il falegname, ma appena risparmiò i primi soldi, acquistò una bici da corsa a rate e traslocò la propria vita sulla strada. Era il 1924 e lui aveva 18 anni.
Sono qui che aspetto Contador, bevo una birra e studio Cañardo. A 19 anni partecipò alla prima corsa, se la cavò bene, a 20 conquistò la prima vittoria, in Cantabria, a 22 s’impadronì del Giro di Catalogna, che sarebbe diventato il suo regno, sette vittorie e quattro podi più 19 tappe. Scalatore come tutti, cronoman come pochi, Cañardo era il favorito della prima Vuelta di Spagna, quella del 1935: 50 corridori, 33 spagnoli e 17 stranieri, 3425 chilometri in 14 tappe, e a classificarle strade si commetterebbe un peccato di presunzione. L’austriaco Max Bulla, che in quella Vuelta avrebbe vinto due frazioni e ottenuto il quarto posto finale, confessò: “La corsa è così dura che non solo gli spagnoli, ma anche la maggior parte degli stranieri, se solo lo avessero saputo, non sarebbero venuti”.
Sono qui che aspetto Brambilla e Conti, mi gratto la testa e immagino Cañardo. Quella Vuelta partì e arrivò a Madrid. Il pronti-via fu dato alle otto di mattina, la capitale era invasa dalla gente, davanti al gruppo c’era la macchina del quotidiano, “Informaciones”, che organizzava la “carrera”. La prima tappa, a Valladolid, Cañardo fu secondo; la quinta, a Saragozza, primo; la settima, a Tortosa, secondo; l’ottava, a Valencia, terzo; la nona, a Murcia, secondo; l’undicesima, a Siviglia, terzo; la quattordicesima e ultima, a Madrid, secondo. Ma in maglia arancione – quella riservata al leader della corsa – c’era uno dei due fratelli belgi Deloor, quello minore, Gustaaf, e non ci fu modo di superarlo. E così, secondo dei 29 superstiti, Cañardo.
Sono qui che aspetto non mi ricordo più chi e che cosa, me ne frego e sogno Cañardo. Che correva per il FC Barcelona, che fu il primo spagnolo a vincere il Giro dei Paesi Baschi, che fu uno dei primi spagnoli a partecipare al Giro d’Italia, ma senza fortuna, due Giri e due abbandoni, che in un Tour de France – quello del 1936 – arrivò sesto, che durante la Guerra Civile fu costretto a rifugiarsi in esilio e nel 1943 a ritirarsi dal ciclismo, che negli anni Cinquanta fu il c.t. della nazionale spagnola al Tour e il presidente della Federazione ciclistica catalana, e nel 1953 il direttore sportivo della Fiorelli in Italia, nove corridori, di cui sei spagnoli, un francese e due italiani, Bruno Landi che proprio quell’anno avrebbe vinto il Giro di Lombardia perché a Fiorenzo Magni un vigile aveva fatto sbagliare strada all’ingresso del Vigorelli, e Pierino Zanelli che avrebbe potuto raccontarmi di Cañardo. E stupido io, che non l’ho mai fatto.
Mariano Lacasta Cañardo morì a Barcellona il 20 giugno 1987, a 81 anni. La vera insufficienza cardiaca non fu la sua, ma quella del destino. Il giorno prima, alle 16.08, 21 persone erano morte e 45 ferite in un attentato dell’Eta, proprio a Barcellona, nel supermercato Hipercor. E sui giornali non c’era più spazio per celebrare il vecchio corridore.
Marco Pastonesi