Tra i possibili vanti del ciclismo italiano vi è certamente quello di assicurare un grado di qualità e sicurezza delle proprie gare su strada mediamente superiore a quella di altri Paesi. Ciò, in buona parte, per merito della figura del direttore di corsa - che altre Nazioni non hanno – ed a cui è affidato il compito di contemperare le scelte e l’investimento dell’organizzatore con il rispetto delle regole sportive e del diritto alla sicurezza di tutti i soggetti coinvolti, nel rispetto della normativa vigente, con particolare attenzione alla circolazione stradale, all’ordine pubblico, al funzionamento dei servizi essenziali ed alla tutela dei diritti inviolabili dei cittadini.
Il direttore di corsa riveste, dunque, un ruolo oltremodo complesso il cui assolvimento necessita, oltre alla indispensabile passione, anche di una indiscutibile professionalità, forse non ovunque presente, ma da quanto è possibile constatare, generalmente di un buon livello e di grado crescente in rapporto al tipo di gara da svolgere e al suo grado di complessità.
Ma c’è di più.
Attualmente, anche quale conseguenza dei mutamenti intervenuti nel tempo, il requisito indispensabile per assolvere a tale ruolo, è certamente quello del coraggio di assumersi il livello più alto di responsabilità personale che la competizione possa imporre, superiore a quella dello stesso organizzatore, che risponde soprattutto per il pre e il post gara, mentre per tutto il resto, dalla partenza all’arrivo, è esclusiva la responsabilità del direttore di corsa.
Ed è proprio in questa parte della gara che insistono le insidie peggiori e le dinamiche più impensabili e che, potenzialmente, travalicano ciò che può essere ragionevolmente previsto e predisposto.
In sintesi, spetta al direttore di corsa decidere la partenza, e nel farlo egli si rende automaticamente garante che tutto quanto doveva essere fatto, osservato e predisposto, è stato realmente eseguito. Altrimenti, questa la regola, è suo compito annullare la gara, costi quel che costi.
Preme precisare che la responsabilità in cui incorre il direttore di corsa non è soltanto sportiva, ma anche civile, per non dire addirittura penale, quando dal fatto possano derivare conseguenze gravi o molto gravi. In tali ultimi casi, il rischio è una condanna detentiva e l’esposizione del proprio patrimonio personale. Una ipotesi forse dai più considerata soltanto teorica, ma che invece, soprattutto negli ultima anni, è diventata sempre più realistica. Basti riflettere sui molteplici casi in cui i direttori di corsa sono stati indagati, oppure rinviati a giudizio, ovvero, infine, condannati da Tribunali e/o Corti che, probabilmente, neppure sono a conoscenza della specificità delle gare ciclistiche su strada.
Emblematico in tal senso, il recente caso del direttore di corsa Rodolfo Gambacciani condannato il 13.12.24 dal Tribunale di Pistoia a venti mesi di carcere e ad un risarcimento di seicentodiecimila euro in solido con l’organizzatore della gara, anch’egli condannato ad una pena detentiva di due anni. Tutto ciò, a parere del giudice, per non avere, in occasione della 72a Firenze-Mare del 2018, segnalato e protetto in modo adeguato una curva che avrebbe determinato la caduta e, successivamente, a distanza di oltre due anni, la morte del corridore Michael Antonelli.
Curva che invece, secondo quanto riferito dagli indagati, avrebbe dovuto essere considerata di grado e livello “ordinario” e che solo l’inavvedutezza dei corridori o l’imprevedibile caduta di altri che precedevano, avrebbe potuto dimostrarsi pericolosa e addirittura fatale. Opinione a sua volta condivisa dalla totalità dei direttori di corsa, dei tecnici e degli organizzatori della Regione Toscana che conoscono quel tratto di strada e che mai lo avevano segnalato per la sua pericolosità.
La vicenda, come molti sanno o possono supporre, è complessa e ricca di svariati dettagli, che in un modo o in un altro, possono aver concorso ad orientare il pensiero dei giudici così come quello di altri interessati alla questione.
Certamente non è questa la sede per addentrarsi nei particolari, ma ciò non può esimere dal tracciarne i suoi elementi fondanti e che si reputano necessari allo svolgimento delle ulteriori ed importanti considerazioni e riflessioni che la vicenda impone per il futuro del ciclismo.
Non di meno è impossibile distogliere il pensiero dalla circostanza che le condanne, seppure mitigate dalla sospensiva e i risarcimenti garantiti dalle assicurazioni, sono fatti gravi al punto di minare lo stato psichico ed economico delle persone, di stordirle nell’amarezza e nella frustrazione per un reato che pensano di non avere realmente commesso, di offenderle moralmente per la perdita dello status di incensurato e quindi, per la legge, di cittadino perbene. Così come, accanto a questo, il dolore che tutti provano per la perdita del giovane Micheal.
Dopo il caso della sentenza del Tribunale di Pistoia (n. 1838/2024) la domanda che i direttori di corsa si pongono è semplicemente questa: la strada, a parte gli aspetti di pendenza, sinuosità, larghezza e stato del manto, con tutti i suoi spartitraffico, rotonde, elementi di canalizzazione, dossi rallentatori, paline di segnaletica stradale, arredi urbani di ogni tipo e di più folle fantasia, può davvero essere un “campo di gara” in cui ogni potenziale punto pericoloso può essere messo in sicurezza con protezioni passive, cartelli di preavviso, barriere o segnalazioni mobili?
La risposta è ovviamente no!
No, perché oggettivamente impossibile in termini economici e di risorse umane. Per le grandi corse tanto può essere fatto e si sta facendo, ma per le gare ordinarie, questo può avvenire solo con caratteri di assoluta essenzialità. Cioè a dire: segnalare o proteggere i punti di discontinuità fisica del tratto stradale che possono sfuggire alla normale percezione quali ad esempio restringimenti improvvisi per lavori temporanei, avvallamenti, frane, buche e quant’altro abbia carattere eccedente allo stato ordinario della strada e di quanto predisposto dall’ente proprietario per la quotidiana circolazione stradale.
Diversamente, fuori dal concetto di essenzialità, ogni metro di una gara ciclistica su strada esporrà potenzialmente il direttore di corsa, figura preposta a valutare se quanto predisposto dall’organizzatore è sufficiente a prevenire rischi, a pesanti responsabilità, anche, paradossalmente, qualora, in conseguenza di uno sbandamento, di una frenata impropria o di un arrotamento, qualche corridore andrà a sbattere o uscirà di strada e per circostanze del tutto casuali. Come in un qualche modo i recenti casi giudiziari stanno pericolosamente evidenziando.
A questo rischio ed a queste conseguenze è necessario porre rimedio al più presto. A tal fine, potrebbe essere opportuno riflettere su una diversa e più articolata distribuzione delle responsabilità tra i soggetti coinvolti nella corsa, si potrebbe rivedere lo stesso Regolamento Tecnico per tracciare compiti e facoltà più realistici e meno teorici, si potrebbe valutare una migliore declinazione nazionale nell’applicazione di talune norme UCI, finanche alla necessità di ulteriori modifiche al Codice della Strada che meglio tutelino il ciclismo ed una revisione del Disciplinare che lo riconduca alla sua essenziale funzione di attuazione dell’art. 9 e non anche di surroga dei regolamenti tecnici sportivi.
Non meno importante sarebbe, inoltre, l’introduzione, almeno per Esordienti ed Allievi, dell’obbligo di partecipare annualmente a corsi sulla sicurezza e gestione delle gare, quale condizione per ottenere il rilascio della licenza e successivi rinnovi. Corsi formativi ai quali si può accedere, grazie alla orami diffusa tecnologia, con modalità flessibili e a distanza.
E’ infatti impossibile continuare ad imporre obblighi organizzativi che poi restano pressoché sconosciuti a chi ne deve usufruire, così come accade per le informazioni date nelle riunioni pre-gara, che i Tecnici hanno l’obbligo di trasferire ai propri atleti, ma che spesso vengono trascurate a vantaggio del riscaldamento o delle studio delle strategie di gara. Per convincersene basta poco. Sarà sufficiente, prima della partenza, provare ad ascoltare cosa viene detto nei consueti capannelli tra corridori e tecnici.
Molti osservatori, correttamente, fanno appello ai doveri del direttore di corsa previsti dall’art. 58 del Regolamento Tecnico, senza però preoccuparsi di dare piena ed efficace attuazione anche all’art. 109, proprio la norma che stabilisce che « i corridori sono tenuti durante la corsa al più assoluto rispetto della maggiore prudenza per la propria incolumità e per quella degli altri concorrenti, del seguito della corsa e degli spettatori. Essi sono tenuti a conoscere le caratteristiche del percorso e dovranno rispettare le disposizioni e le segnalazioni della direzione corsa».
Quella “maggiore prudenza” e “conoscenza del percorso”, che seppure rappresentino concetti basilari della sicurezza, poco o niente sembrano influenzare le sentenze dei giudici e che, invece, dovrebbe essere da costoro ponderati con attenzione.
Da ciò consegue, nel contempo, la necessità di una urgente riflessione da parte dell’intero corpo federale, con il coinvolgimento di avvocati e giuristi, affinché ci si orienti ad una più realistica considerazione di ciò che “ragionevolmente”, può essere attribuito a titolo di responsabilità al direttore di corsa ed all’organizzatore, contribuendo ad evitare che si formi una giurisprudenza del tutto sfavorevole alle legittime attese del movimento ciclistico. Infatti, in mancanza di una specifica conoscenza delle gare ciclistiche, il rischio, già in atto, è quello che venga fatto eccessivo riferimento al “tenore letterale della norma” e si riservi poca attenzione alla sua realistica declinazione applicativa. La responsabilità è un principio fondamentale ed imprescindibile per obbligare le persone ad agire con consapevolezza, scrupolo e senso del dovere, ma la giustizia, anche nel caso del ciclismo, è auspicabile si faccia apprezzare per la conoscenza dei reali contesti e per il rispetto nei confronti di coloro che organizzano e gestiscono lo sport come valore primario costituzionalmente garantito.
Addirittura, in questo contesto, si rischia la possibile contraddizione insita nella nuova formulazione dell’art. 9 del CdS, il quale, dopo aver stabilito che le gare sono “permesse”, ne subordina poi fattivamente lo svolgimento alla condizione che le strade scelte, seppure ordinariamente transitabili, siano suppletivamente rese sicure con misure e modalità il cui grado di adeguatezza, all’occorrenza, dovrà essere valutato dal giudice ordinario. Una ipotesi meritevole di approfondita riflessione anche da parte di coloro che, in termini di semplificazione, pensano che per le gare ciclistiche si debba superare il concetto di autorizzazione per arrivare alla semplice presa d’atto. Con la possibile conseguenza di un significativo incremento di responsabilità per i direttori di corsa e per gli organizzatori. Bene quindi se si vorrà procedere con doverosa cautela, con un progetto compiuto dal punto di vista normativo ed applicativo ancorchè gradualmente condiviso con chi, a livello di base, promuove il ciclismo e ne organizza le manifestazioni sportive secondo quanto voluto dal CONI, ovvero da società sportive dilettantistiche, vale a dire “non a scopo di lucro”,
Avverso la sentenza di primo grado è stato presentato ricorso alla Corte d’Appello di Firenze, che vedrà la partecipazione soltanto del Signor Gambacciani dal momento che, nel frattempo, è purtroppo venuto a mancare l’altro coimputato, l’organizzatore Gian Paolo Ristori, all’epoca dei fatti presidente della S.C. Aurora. L’interessato e moltissimi tra i suoi colleghi si augurano che il verdetto possa essere ribaltato.
Purtroppo, però, l’accusa ha nel frattempo trovato un “alleato” addirittura interno alla FCI. Infatti, il Tribunale Federale, Iª Sezione, con sentenza del 18 luglio 2025, ha inflitto al Gambacciani la sospensione di 8 mesi e 15 giorni, per violazione dell’art. 58 del Regolamento Tecnico e più precisamente «per non aver prescritto all’organizzatore della corsa di approntare una barriera protettiva provvisoria per quel tratto di strada, pari a circa 28 metri di lunghezza, in corrispondenza di una semicurva prospiciente ad una scarpata». E quindi anche, nell’esercizio dei suoi poteri quale direttore di corsa, per non aver «impedito lo svolgimento della manifestazione ciclistica in assenza di adeguate cautele e segnatamente non imponendo all’organizzatore della corsa di predisporre barriere di contenimento con protezioni morbide al km 61+500 ... tratto privo di alcuna barriera stradale». Nel 2021 lo stesso Tribunale aveva archiviato il caso non rilevando alcuna responsabilità né del direttore di corsa né dell’organizzatore. Ma poi, con l’esposto presentato il 13 gennaio 2025 alla Procura Federale da parte del legale della famiglia Antonelli ed il successivo accesso agli atti del processo di Pistoia, il deferimento è stato di nuovo riaperto, con la conseguenza che, alla sentenza penale di condanna, si è aggiunta anche quella del Tribunale Sportivo Federale. Una sentenza che sorprende e che lascia allibiti, come da molte parti è stato sottolineato. La frase più ricorrente nei commenti riportati sui canali social è, infatti, « Se nemmeno la giustizia sportiva comprende le nostre ragioni, allora possiamo andarcene tranquillamente a casa!».
Nessuno, dotato di buon senso, può pensare che il tribunale sportivo possa all’occorrenza decidere per convenienza o per tutela di qualcuno a fronte dell’attacco di soggetti esterni. La sua autonomia di operato e di decisione, deve essere difesa nel modo più assoluto. Ma nel caso di un tribunale sportivo, ci si attende anche, insieme al rigore della norma e delle procedure, che il giudizio finale sia il frutto di una convincente considerazione di quello che la gara sportiva è nella sua realtà fattuale, nelle sue possibilità vere, nella sua complessità, nella sua realistica prevedibilità, nella condivisa normalità che si pretende e si concede affinché le società si prestino all’indispensabile e primario compito di organizzare le competizioni su cui poggiano le attese dell’intero movimento. Ma in questo caso è accaduto qualcosa di veramente inatteso: il Tribunale Federale ha deliberato un provvedimento disciplinare facendo proprie in maniera pedissequa le conclusioni del giudice del Tribunale di Pistoia.
In termini di principio, tratti di identità tra decisioni di diverse giurisdizioni possono anche essere considerate normali, ma nel caso di specie, data la necessaria valutazione di molteplici variabili che il fatto impone, è certamente singolare. E se il pronunciamento fosse giusto, allora i direttori di corsa resterebbero totalmente “nudi”, senza nessun filtro e nessuna tutela da parte della propria Federazione.
Avverso la sentenza sportiva è verosimile venga presentato ricorso al Tribunale Federale d’Appello. E se questo avverrà è auspicabile che in questa sede il verdetto venga ribaltato e che il pronunciamento anticipi l’udienza della Corte di Appello di Firenze.
Ovviamente, ognuno è libero di esprimere sul punto la propria opinione, di dire anche che per trattarla adeguatamente sarebbe necessaria, quantomeno, una laurea in giurisprudenza, che discutere le sentenze è un esercizio piuttosto azzardato o addirittura non opportuno, ma una cosa è certa: il caso adesso esiste veramente! Non lo si può ignorare perché, nella loro professionale e umana percezione, sono i direttori di corsa a non poterlo fare e ad interrogarsi sul cosa fare per rivendicare un clima giuridico e normativo più vicino alle loro effettive e possibili responsabilità, senza diventare, inevitabilmente, il soggetto sacrificale di un ciclismo su strada sempre più impossibile.
Senza i direttori di corsa in Italia le gare non si possono fare. Il loro potere di interlocuzione è, quindi, potenzialmente molto forte. C’è chi suggerisce di astenersi dalla prestazione oppure di non rinnovare la propria tessera per il prossimo anno, oppure di tardare a farlo in segno di protesta, oppure di ritardare, in un giorno stabilito e concordato, tutte le partenze per dare modo ai direttori di corsa, davanti ai corridori, di leggere un loro appello. C’è, ancora, chi ritiene opportuno redigere un’istanza per la definizione di un quadro normativo sportivo e giuridico più coerente alla figura dei direttori di corsa e alla necessità di una riorganizzata loro tutela personale, sportiva, civile e penale.
Opzioni, queste, certamente comprensibili, ancor meglio se collocate nel rinnovato impegno ad elevare sempre e comunque lo status della propria prefessionalità, facendo definitivamente cessare anche la pratica, talvolta osservata, di qualche direttore di corsa che si limita ad essere presente soltanto il giorno della corsa, o di qualche organizzatore che ingaggia solo direttori di corsa che “non sollevano problemi”. Un impegno associato alla necessità di finalizzare meglio le risorse economiche a vantaggio della sicurezza delle gare, accettandola come la prima delle priorità, per poter disporre sulla strada di scorte, presidi e protezioni in quantità crescenti, pur nella consapevolezza che il rischio zero non esiste e che l’imponderabile e l’imprevedibile sono sempre in agguato.
La strada per la riflessione è pertanto aperta. Occorre soltanto il forte desiderio e la fiera consapevolezza di percorrerla per un nuovo e diverso approdo, che eviti ai direttori di corsa di essere condannati penalmente anche per le responsabilità che altri rifiutano. Un limite dovrà pure esserci!