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DAL LUNIGIANA ALL'IRIDE: ALEX PEDERSEN, L'ITALIA E QUELLA MAGLIA FANINI...
di Valter Nieri | 05/09/2022 | 08:10

In occasione del Giro della Lunigiana abbiamo avuto modo di contattare telefonicamente il danese Alex Pedersen che vinse la classica corsa a tappe per junores nel 1983 e che ricorda quel successo come uno dei più belli della sua storia ciclistica. Una storia sbocciata in Italia grazie ad Ivano Fanini, patron di Amore e Vita, che reclutò negli anni Ottanta un bel gruppo di ragazzi scandinavi seguendo i preziosi suggerimenti dell'ex recordman dell'ora Ole Ritter.

Alex Pedersen è stato anche campione iridato nella cronosquadre ai mondiali neozelandesi di Wanganui sempre nell'83 assieme a Kim Olsen, Soren Lilholt e Rolf Sorensen, che gareggiarono in sella a biciclette Fanini. Alecx Pedersen passò poi professionista nell'88 ma nel 1991 alla Vuelta gli furono riscontrate arimie cardiache che limitarono il suo potenziale. La sua scelta fu quindi di ritornare dilettante ottenendo altre vittorie prestigiose come il campionato del mondo in linea dilettanti di Capo d'Orlando nel 1994, davanti allo slovacco Milan Dvorscik e al francese Mengin.

Dopo essere stato diesse fino al 2003 della Home-Jack & Jones poi diventata CSC, Alex Pedersen si è adoperato per portare nel suo Paese la Grande Partenza del Giro d'Italia 2012 e poi quella del Tour de France quest'anno. Oltre ad essere stato uno dei promotori, ha ricoperto il ruolo di direttore della segreteria operativa istituita per coordinare i rapporti tra la Danimarca e le grandi corse a tappe.

Nel 1983 lei vinse il Giro della Lunigiana e il mondiale della cronosquadre juniores: cosa ci racconta di questi due memorabili successi?

«Il Giro della Lunigiana era l’ultima corsa che disputavamo per essere selezionati ai mondiali, quindi era un evento al quale noi danesi tenevamo particolarmente proprio per essere scelti nella squadra che avrebbe poi corso i campionati del mondo. Io sapevo di dover dimostrare al CT il mio valore per essere portato ai mondiali e quindi ero pronto a dare tutto anche se soltanto una settimana prima della corsa fui coinvolto in una bruttissima caduta in Danimarca rompendomi entrambi gli incisivi e dovetti passare due giorni sulla sedia del dentista per poterli sistemare e rimettermi in sesto. Sinceramente ero molto nervoso e non credevo di farcela ma per fortuna la condizione era buona e riuscii ad essere alla partenza. Ricordo che il giorno prima della prima tappa (una cronosquadra) caddi di nuovo durante l’allenamento di ricognizione. Anche quella fu una bruttissima caduta. Due gravi incidenti in una settimana non erano di buon auspicio però tenni duro e mi presentai al via pronto a lavorare per Rolf Sorensen che era il nostro capitano. Nella prima tappa riuscii ad andare in fuga ed arrivare 3° al traguardo con 45” di vantaggio sui corridori più forti. La terza tappa poi era una crono scalata e Sorensen riuscì a vincere ma io arrivai nuovamente 3° e presi la maglia di leader della classifica generale. A quel punto, nelle ultime due tappe, la squadra lavorò per me e ce la feci a tenere la maglia e vincere il Giro. Per me era un grandissimo traguardo perché anche allora come oggi il Giro della Lunigiana era la corsa a tappe più importante al mondo nella categoria Juniores. In quell’occasione fu la prima volta che incontrai la famiglia Fanini e lì facemmo l’accordo con Ivano: se avessimo vinto il mondiale su biciclette Fanini lui ci avrebbe fatto venire in Italia a correre nella sua squadra e ognuno di noi avrebbe ricevuto un premio di un milione di lire. Ci riuscimmo e tornammo in Italia dove fummo accolti con una bella festa nella quale Ivano ci consegnò i soldi e ci diede una bella targa di ringraziamento in legno e bronzo che ancora oggi ho appesa in casa. Fu proprio un grandissimo periodo per me quello».

Cosa ci dice del mondiale che vinse nel 94 in Sicilia?

«Fu una giornata caldissima, me la ricordo come fosse oggi. Non avevo grandissime aspettative anche se sapevo di stare molto bene, ma i favori del pronostico non erano dalla mia parte ma da quella degli atleti italiani che correvano in casa. Feci tutta la prima parte della corsa nella pancia del gruppo sfruttando il più possibile il lavoro delle nazionali più forti all’epoca poi, quando la corsa entrò nel vivo, mi mossi. Ricordo che vidi andare via un gruppo di atleti tra cui due francesi, un cecoslovacco ed il leader della formazione italiana Pianegonda. Mi resi conto che nessun danese era entrato, quindi mi dissi che era il momento di provarci e così feci. Attaccai da solo e riuscii a riportarmi su questi atleti e la fuga arrivò al traguardo. Quando vidi la flamme rouge dell’ultimo chilometro pensai che se li avessi anticipati magari sarei riuscito ad arrivare sul podio, infatti conoscevo i miei avversari di gruppo e sapevo che Pianegonda era molto veloce. A circa 250 metri dal traguardo lanciai io stesso la volata. La presi dall’ultima posizione sfruttando il fatto che due francesi sbagliarono completamente tattica. Tutti rallentarono per controllarsi ed io invece partii lungo senza voltarmi mai. Quando vidi il cartello dei – 25 metri mi accorsi che ero ancora in testa e a quel punto pensai che avrei vinto. Sinceramente rimasi sorpreso perché non credevo di essere il più veloce ma probabilmente fui bravo a cogliere l’attimo giusto e diventai campione del mondo.

L’aritmia cardiaca le ha causato molti problemi in un momento importante della sua carriera?

« Quando sono arrivato nella famiglia Fanini avevo soltanto 16 anni e avevo il sogno di diventare professionista e correre ai massimi livelli per almeno 15 o 20 anni. Poi nel 1989 arrivarono i primi sintomi di questa aritmia e fu un periodo molto duro per me. Ricordo che il mio medico in Danimarca mi diede dei farmaci per il controllo del ritmo cardiaco e continuai a correre. Tuttavia il problema si ripresentò in maniera molto più grave nel 1991. A quel tempo cominciò ad arrivare in gruppo l’EPO, e si iniziavano a sentire dei “rumors” dagli atleti che ne facevano uso. Sapevo che se avessi voluto continuare a correre ad alti livelli, probabilmente avrei dovuto anche io fare uso di EPO e sapendo quali danni mi avrebbe potuto provocare con le condizioni del mio cuore avevo paura di morire e dissi che era meglio smettere.  Smisi di correre da professionista pur avendo ancora un contratto per due anni con una delle formazioni più forti ed importanti al mondo che era la ONCE.  A quel punto appesi la bici al chiodo per un anno e tornai in Danimarca. Poi il mio medico mi disse che avrei potuto tornare a correre per divertimento e per mantenere la linea. Quindi ricominciai in Danimarca da dilettante senza alcuna pressione o aspettativa ma con il solo obbiettivo di praticare uno sport come hobby per il piacere di andare in bicicletta. Fui fortunato perché mi ritrovai a fare i mondiali da dilettante e vinsi. Dopo il successo ai mondiali fui nuovamente contattato da numerose squadre che mi offrivano tanti soldi per tornare professionista ma io dissi di no. Mi godevo la mia vita in Danimarca ed ero campione del mondo dilettanti senza pressione e senza rischiare la mia salute e quindi decisi di restare dilettante e di chiudere la mia carriera così».

Quanto ha inciso in Italia Ivano Fanini all’inizio della sua carriera?

«Quando sono arrivato in Italia ero un ragazzino che usciva di casa per la prima volta. Ricordo bene i primi tre mesi passati a Lucca all’hotel Melecchi, ricordo la famiglia Fanini che mi trattava come un figlio e i direttori sportivi Di Giulio e Bendinelli che erano sempre con noi per ogni nostra necessità. È lì che ho capito che avrei voluto fare il ciclista professionista. In Italia c’erano già Jens Veggerby e Jesper Worre che correvano con Fanini e poi vivevo con Sorensen e con Lilholt, quindi per noi fu abbastanza facile adattarci. Fanini ci accudiva in tutto e non ci faceva mancare niente e devo ringraziarlo perché se non ci fosse stato lui tutto questo per me e per tanti miei connazionali non sarebbe stato possibile.

Ivano Fanini è considerato uno fra i più grandi dirigenti ciclistici nella storia del ciclismo mondiale, ma quali sono secondo lei le sue più grandi qualità? Qual è stato il segreto del suo successo?

«Ivano è una persona vera. Uno che non dice bugie e che se fa una promessa la mantiene. Me ne sono subito reso conto nel 1983 e 1984 e lo posso confermare ancora oggi. Vuole il bene al ciclismo e ai suoi atleti. Ci mette anima e cuore e non fa mancare niente ai corridori. Il segreto è proprio questo e quando lo incontri lo capisci subito. Non ci sono menzogne, lui ci mette tutto il suo cuore e questo fa la differenza».

Lei è stato giudicato atleta dell’anno in Danimarca nel 1987, poi nell'89 e infine nel '94.

«E' stata una grandissima soddisfazione oltre che un immenso onore. Vincere tre volte questo premio non è stata cosa da poco. Soprattutto perché a votare il miglior ciclista danese erano proprio i ciclisti, quindi vedere che i miei colleghi avevano così tanta stima verso di me mi ha reso enormemente orgoglioso».

Secondo lei che conosce bene il ciclismo italiano, qual è il motivo per cui non ci sono più campioni e si sta andando incontro ad un declino repentino?

«Ne parlavo proprio pochi giorni fa con dei miei amici: è davvero una cosa strana, quasi inspiegabile. L’Italia è sempre stata la patria del ciclismo e questo mette certamente un po’ di tristezza. C’è la passione in Italia e più o meno il ciclismo è popolare come il calcio e quindi non so come spiegarlo. Probabilmente è perché non ci sono World Teams e questo condiziona il movimento ciclistico italiano. Si può vedere che i migliori atleti italiani corrono in squadre World Tour all’estero, stessa sorte per i manager. Questo forse danneggia tutto il movimento ma mi auguro che arrivino sponsor importanti e possiate avere una formazione del livello che meritereste e così forse si rilancerebbe l'intero movimento del quale siete stati leader per così tanti anni»

E viceversa cosa ci dice della crescita del ciclismo danese?

«Abbiamo molti atleti di livello fortunatamente. Tutto è cominciato con noi che siamo arrivati al ciclismo professionistico grazie a Fanini. Poi nel 1998 io sono stato uno dei fautori del team Jack and Jones, squadra danese che poi è stata gestita da Riis e sponsorizzata dalla CSC e Saxo Bank. Con questo team abbiamo dato una grande sterzata al ciclismo danese consentendo ai migliori atleti juniores e under 23 di crescere nelle giuste condizioni per poi passare nel World Tour. Poi c’è una grandissima attenzione sul Tour de France e questo porta tanti giovani ad approcciarsi al ciclismo. Ora abbiamo Vingegaard e molti altri come anche l’ex campione del mondo mio omonimo Mads Pedersen però siamo sempre alla ricerca di talenti perché ci vorrà un bel ricambio generazionale».

Giro e Tour in Danimarca, qual è stato il suo impegno?

"Enorme. Ho personalmente lavorato sul progetto Giro d’Italia per 4 anni, sempre a stretto contatto con RCS, impiegando centinaia di ore di duro lavoro. Con il Tour de France invece è stato tutto molto più complicato. Ci ho messo oltre 10 anni e migliaia e migliaia di ore di lavoro con ASO. Alla fine è andata bene, soprattutto con il Tour visto che poi ha vinto proprio un atleta danese».

Qual è oggi il suo ruolo nel ciclismo?

«Adesso che il Tour si è concluso non ho più un ruolo nel ciclismo e mi godo un po’ di riposo da questo ambiente. Non sto lavorando per la federazione danese e come ho detto mi prendo un periodo per staccare. Di sicuro so che il ciclismo è la mia vita e un giorno ritornerò a farne parte ma per adesso non so ancora quando e con quale incarico».

Che attività svolge oggi?

«Lavoro come direttore in una compagnia di forniture energetiche in Danimarca. Ho un ruolo abbastanza importante e sono felice. Per adesso va bene così».

Per quanto riguarda Fanini la storia insegna che c'è spesso di mezzo il suo nome quando si parla di ciclismo, non sfugge alla regola nemmeno il Giro della Lunigiana. Non soltanto per la storia dei danesi. Lo scorso anno a vincere la corsa a tappe juniores fu Lenny Martinez della nazionale francese pronto a passare professionista nella squadra francese Groupama-FDJ. Suo padre Miguel, vincitore di 3 mondiali in MTB e nel Cross Country delle Olimpiadi di Sydney 2000, corse professionista con Amore e Vita Mc Donald'S nel 2008 per poi tornare a chiudere la sua carriera nel 2020 con la stessa Amore e Vita Prodir.

da La Gazzetta di Lucca

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