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ANGELO DAMIANO, L'ORO DI NAPOLI DI TOKYO 1964
di Gian Paolo Porreca | 31/07/2021 | 08:05

Angelo, ma ci sei finalmente a raccontarci del tandem romantico e di quell' oro straordinario con Bianchetto a Tokyo, nel ‘64 ?
«Scusami se non ho risposto prima al cellulare, ora mi fermo e parliamo, sai scendo da quel mio buen retiro che è anche di estate tutti i giorni ancora la mia bicicletta da corsa, ho quasi 83 anni, ma di chilometri oggi ne ho fatti due almeno in più, 85, da solo, senza mio fratello minore Pasqualino che mi accompagna...».

Era di tardo pomeriggio, 20 ottobre 1964, velodromo di Hachioj, giusto ?
«Giustissimo, e pensa che tutto il programma di corse fu da ultimare in un giorno solo, 13 coppie in lizza, eliminatorie, recuperi, semifinali, finale, perché il giorno prima era piovuto... La semifinale contro i tedeschi Fuggerer - Kobusch e poi la finale contro i russi Bodnieks-Logunov. Ma vedi, fu una impresa titanica, perché perdemmo tanto in semifinale che in finale sempre la prima prova, e ci volle una forza d' animo incredibile, lo dico serenamente, molto napoletana, e ancor più molto sentimentale...».

Il padovano Bianchetto la guida scaltra, il partenopeo Damiano il motore possente, il tandem si vince in due...
«Certamente, ma Sergio Bianchetto, in finale era distrutto, ‘non ne ho più, Angelo’, ed era anche un po’ sotto sotto amareggiato per aver perso la finale della velocità individuale con Vanni Pettenella... Ed allora lo ho preso come fosse stato un fratello minore, gli ho dato una carica speciale. ’Sergio, io e te abbiamo in programma tutti e due il matrimonio a fine anno, lo sai, dobbiamo sposarci, Sergio, quest’ oro ci serve per la vita futura, dobbiamo farcela'. E io a rincuorarlo, a pensare io alla mia Annita, lui alla sua morosa, E si vinse, e come si vinse, una bella che più bella non sarebbe esistita...».

Un oro in Giappone con un cuore azzurro, da emozionarsi ancora al tuo racconto, un cielo lontano, non i media planetari del 2021...
«Già, mi descrivevano la festa di piazza al mio rione, sai sono di Barra, non quartieri alti, i miei circoli erano i velodromi, la periferia di Napoli che lavorava umile, Ponticelli. Ed è stato quello il vertice di una carriera che sulle strade dell’ hinterland avevo iniziato, con l’ Internaples’ di Barra, l’ Achille Lauro di San Giorgio a Cremano, l’ Eldorado di Casavatore, la Baratta di Battipaglia... Fino a quando, inizio anni ‘60, dopo le prime affermazioni al Velodromo dell’ Arenaccia, entrai nel novero degli ‘azzurrabili’ come di diceva, e il ciclismo su pista era allora un patrimonio di successi prezioso per lo sport olimpico nazionale. Da Napoli fui arruolato così nella ‘Ciclisti Padovani’, il più glorioso dei gruppi dilettantistici italiani. Sai, avevo come guida Severino Rigoni, un duro, e come CT Guido Costa, un dolce... E ti assicuro, solo amicizia, mai estraneità, con Beghetto e Bianchetto, queste cose poi in bici non esistono...».

Fu il momento più alto di una splendida carriera...
«Certo, e sono convinto che se mi avessero fatto correre anche il chilometro da fermo, di oro a Tokyo ne avrei conquistato un altro, lasciamo stare questo cruccio, ed invece è bello pensare che l'incipit di quella vittoria fu in fondo proprio vissuto a Napoli, ai Giochi del Mediterraneo 1963, l'anno prima, quando vinsi l'oro in finale nella velocità, sempre all' Arenaccia indimenticabile, e che nostalgia quella pista in cemento infinita, contro Giordano Turrini. Gli applausi dagli spalti e dai balconi, tutti per me, era settembre. E che goduria particolare, sapessi, aver superato in semifinale Daniel Morelon, l' astro nascente francese, lui con il tono guascone da conquistatore, di lui si narrava addirittura un flirt con Brigitte Bardot...».

D) E dopo le Olimpiadi del '64?
«Passai professionista, naturalmente, nel 1965, vinsi il bronzo nella velocità ai Mondiali di Amsterdam nel '67, fui quarto a Leicester nel '70, c' era Patrick Sercu, un gentiluomo, meglio di Antonio Maspes, ormai a dominare i velodromi. E mi ricordo le Sei Giorni, quelle in Nuova Zelanda, in coppia con Sante Gaiardoni, ed una speciale, nel 1970, invece a Montreal. Pensa, la corsi con Vito Taccone, lo scalatore abruzzese, che in pista non sapeva andarci affatto. Fu una idea affettuosa di Jan Derksen, il patron olandese delle Sei Giorni, che volle portare due ciclisti italiani del Sud a correre in Canada, per fare contenti gli immigrati del nostro meridione. Pensa te, che lezione di sensibilità, quel campione di uno sport che non torna, amava Napoli, diceva».

Ed oggi, come li vedi questi nuovi Giochi a Tokyo ?
«Adesso, per guardare al ciclismo su pista, che è tanto diverso da quello di allora, meno popolare, senza più il mio tandem fra l’altro come specialità in lizza da una vita, spero in Elia Viviani nell'individuale, che è forte ed è stato già oro nell'omnium ai Giochi di Rio, e poi è stato il nostro portabandiera, sai, un grande onore per il ciclismo. Ma innanzitutto, penso a come passa di corsa il tempo, il '64 a raccontarlo sembra ieri, ed invece è un secolo scorso, ringrazio di aver scavalcato con mia moglie Annita anche il Covid, e mi consolo tuttora in bicicletta al mattino, e chi la lascia è perduto, per quanto restano però giovani almeno i ricordi. Quelli, sai, non invecchiano mica come noi. (E sì, caro Angelo, oro non placcato di Napoli dal 1964 ad oggi, e concorda con te anche chi come me non resterà della vita un pistard immortale).

da 'Il Mattino', 29 luglio 2021 - foto da coni.it

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