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L'ORA DEL PASTO. LA LEGGEREZZA DI BURATTÌN
di Marco Pastonesi | 06/05/2020 | 07:50

Ottomiladuecento metri. Verticali. Quasi. Dai 118 metri di Campomorone ai 772 del passo. Un 10 per cento tenace, soffocante con il caldo, impietoso sotto l’acqua o crudeli nel vento, con due soli respiri, il primo poco dopo l’attacco, mozzafiato, il secondo a metà, prima della vera sofferenza. La Bocchetta, la cattedrale gotica del Giro dell’Appennino. La chiamano la salita delle streghe, e anche la salita dei banditi, ma quel giorno fu lui a far vedere agli altri le streghe, fu lui a far perdere le tracce come un bandito.

MARMOTTA Era il 1° agosto 1954. Giuseppe Buratti, 24 anni, milanese di Motta Visconti, terzo di sei fratelli maschi, maglia blu e gialla della Doniselli-Lansetina, liquidò Angelo Conterno, mollò Pasqualino Fornara e da solo decollò. Venticinque minuti precisi per tagliare i tornanti, abbracciare il cielo, abbreviare l’agonia. Una pulce, una marmotta, uno scoiattolo. Il mondo del ciclismo – e la folla: due ali, due muri, due processioni – scopriva un corridore con il dono della leggerezza di gravità.

PIUMA Ogni volta che si passava da Motta Visconti, cioè ogni volta che si faceva il giro del parco agricolo sud di Milano, cioè ogni volta che si usciva insieme in bicicletta, Renzo Zanazzi mi indicava la casa di Giuseppe Buratti – il Burattìn per via del suo peso piuma – come se fosse il tempio del Taj Mahal, o l’ultima dimora di un altro Giuseppe, Garibaldi, a Caprera. Un paio di incontri casuali, fra battute e promesse, mai mantenute, illusi che il tempo sarebbe stato infinito. E invece il primo a scappare fu proprio lui, lo scalatore che veniva dalla pianura, e il 26 maggio saranno 12 anni fa. Ma a Motta Visconti ci sono sempre le sue tracce, le sue memorie, le sue eredità. A cominciare da Teresa Andreoni, la moglie di Giuseppe.

LETTO “Ci eravamo conosciuti quando lui aveva 25 anni e io 17. Era già famoso. In paese tutti lo conoscevano, lo seguivano, lo controllavano. Doveva rigare diritto, fare la vita del corridore, la sera a letto, ma presto, la mattina in bici, ma a lungo, la domenica tutti alle corse, ma se vicine. Lui abitava in paese, io poco fuori. Mi vide, mi parlò, mi corteggiò. Cominciammo a frequentarci, ma poco. Lui, spesso, era via. Così ci si scriveva, o ci si telefonava. In paese c’era un solo telefono, pubblico”.

CARRO Buratti era arrivato al ciclismo tardi: “La prima corsa a 22 anni, a Cicognola, nell’Oltrepò Pavese, per la Festa dell’uva, fra amici. Vinse. E allora continuò, con l’U.S. Abbiategrasso. La seconda corsa a Vigevano, secondo. E poi altre corse, scoprendo che per arrivare primo avrebbe sempre dovuto arrivare da solo, perché in volata avrebbe perduto anche contro la propria ombra. Quando vinse anche la Torino-Valtournanche, alla sua maniera, arrivando solo, prima di salire sul carro del vincitore – lo raccontava sempre: il podio era proprio un carro da buoi – venne ingaggiato nella Frejus”.

DONNE Sei anni da professionista, dalla Frejus alla Doniselli, dalla Leo-Chlorodont alla Bianchi, fino alla Molteni nel 1958: “Guadagnava come un impiegato, usciva tutti i giorni, da solo perché qui non c’erano altri corridori, per allenarsi sulle salite doveva fare anche i chilometri, così partiva la mattina e tornava la sera. Ammirava Coppi, conobbe anche Bartali e Malabrocca, si rivide in Pantani: le salite, i tornanti, gli scatti. Siccome le donne dei corridori non erano ben viste dagli sportivi, lo vidi correre solo due volte: la prima volta, grazie alla sua raccomandazione, accolta con altre quattro o cinque ragazze su un pulmann diretto sulla Cisa, la seconda volta in macchina, lui davanti con chi guidava, io dietro con altri due tifosi, per un circuito degli assi a Maggiora. Ma la verità è che lui, se c’ero io o qualche familiare, si emozionava”.

RECORD Buratti fece parlare, scrivere, sognare di sé: “Quel Giro dell’Appennino stabilì il record della salita, poi eguagliato da Coppi, forse con una certa generosità dei cronometristi, imbattuto fino al 1970. Quei Mondiali di Solingen sempre nel 1954, entrando, come promesso, in una fuga. Quella vittoria a Marina di Massa, recuperando il gruppetto in fuga con Nencini e poi staccando tutti. Quella Vuelta del 1956, e quella del 1958, dove avrebbe ottenuto un quinto e un sesto prima di doversi ritirare. Quel Giro d’Italia del 1956, primo sul gpm del Macerone, terzo nella cronoscalata di San Luca, altri piazzamenti di tappa e il settimo posto in classifica prima di ritirarsi nella tappa del Bondone, non per il gelo, ma per un dolore insopportabile al ginocchio, sbattuto proprio alla Vuelta e nonostante un’iniezione durante la tappa. Quell’altro Giro dell’Appennino nel 1956, staccò tutti ma non Maule e Monti, e fu terzo su tre”.

CROSS Giuseppe e Teresa si sposarono nel 1958: “Passò tra gli indipendenti, corse per la Curti Riso, gli ultimi tempi si dedicò anche al ciclocross. Ne organizzarono uno anche a Motta Visconti. Smise di gareggiare all’inizio del 1960. Se prima di diventare corridore cavava ghiaia e pietre dal Ticino e tagliava pioppi per le cartiere, poi mise su un’aziendina per il taglio di lamiere. Ma il ciclismo gli era rimasto nel cuore. Con un rimpianto: cinque Giri d’Italia, 1953, 1955, 1956, 1957 e 1958, e mai la soddisfazione di finirne uno, sempre successo qualcosa”.

 

 

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