Quando, al Trofeo Baracchi del 1949, Fiorenzo Magni gli allungò una pastiglia di bicarbonato di sodio, poi nei 78 km della cronocoppie rifilarono oltre due minuti ai secondi, Toni Bevilacqua e Guido De Santi.
Quando, alla Milano-Torino del 1950, animò una fuga a tre e poi si impose nella volata al Motovelodromo, e il “Corriere della sera” nel titolo spiegò la sua imprevista vittoria con un “Dormono gli assi”.
Quando Vittorio Varale sulla “Stampa” scrisse che era “un novello Balilla”, Orio Vergani sul “Corriere della sera” lo paragonò a “un romantico cavaliere medievale”, Mario Ferretti su “Sport Illustrato” raccontò come “in fuga da 40 km, pedalava guardando a destra e a sinistra: si capiva che cercava qualcuno. Improvvisamente ha bloccato i freni, è sceso di bicicletta, ha abbracciato una donnetta vestita di nero che era sulla strada forse da ore. Non più di 20 secondi di sosta, poi è ripartito!”, e Attilio Camoriano su “Sport Illustrato” commentò “bravo figliolo questo Grosso. Appena dopo l’arrivo è andato incontro a Minardi, l’ha abbracciato, l’ha baciato e poi gli ha detto: ‘Complimenti, la vittoria te la sei proprio meritata’”.
Adolfo Grosso era un corridore in fuga, un fuggitivo, un evaso dalla povertà e dall’anonimato. Trevigiano di Camalò, nove anni da professionista, una dozzina di vittorie, compresa una tappa del Giro d’Italia nel 1954. Poi la famiglia, il lavoro (la campagna, un bar, poi camionista di autocisterne, un altro bar, una pizzeria anche se lui avrebbe preferito un ristorante, ma i soldi non c’erano), fino alla morte, a 52 anni, mentre era in bici, travolto da un camion.
Ai partecipanti della “Borraccia d’oro 2017” è stato distribuito “Fuori dal gregge”, la biografia di Dolfo (gli amici lo chiamavano così) che Carlo Brovazzo ha scritto nel 2011 per Printing Group (152 pagine, 20 euro). E’ la sua storia, fra interviste a parenti e amici, ricerche su quotidiani e riviste, ritagli di giornali e foto d’archivio. Ogni corridore ha almeno una straordinaria storia da raccontare, ed è la sua. Perché ogni corsa è un’avventura, un romanzo, un’epopea. Anche questa.
Quando, al Giro dell’Appennino del 1952, Grosso andò in fuga e “ammirevole per l’audacia e la spregiudicatezza, doti tanto care alla folla. La fuga non è lunga, ma qualche ricco traguardo a premio consola il bravo veneto”, che è così soddisfatto che più avanti si ritirerà. Quando, al Giro di Catalogna del 1952, conquistò la crono perché “in quest’angolo di Spagna Adolfo si sente a suo agio. Qui parlano in un modo che assomiglia a quello di casa”. Quando, al Giro di Argentina del 1954, vinse in fuga da solo per distacco e la sera fu festeggiato “dalla cittadinanza con un pranzo e una festa con canti e danze. E io immagino quanto si sarà divertito Dolfo che, a detta di chi lo conosceva bene, era un bravissimo ballerino, e non perdeva occasione per cantare nel coro parrocchiale”. Quando, sempre in quel Giro di Argentina del 1954, gli italiani vinsero la cronosquadre, ma 24 ore dopo la giuria corresse l’ordine di arrivo facendo trionfare – strano, no? – proprio gli argentini.
“Fuori dal gregge”, nel suo stile rustico e spontaneo, sa di polenta e vino, di Topolino e Ardea, di cinematografi-teatri trasformati in sale da pugilato, di amori a prima vista che resistevano fino alla morte, di ciclismo in bianco e nero, di una passione che non pretendeva di avere tanti perché. Una passione che Dolfo ereditò dal padre, che “in una corsa aveva staccato tutti, ma all’arrivo, invece di tagliare il traguardo, si è fermato in surplace sulla linea bianca, e ha atteso l’arrivo del secondo per x minuti, e quando quello è stato vicino, con un colpo di reni ha completato l’opera”.
Marco Pastonesi